Didattica Orientativa & Tutor

Quelli che insegnano a insegnare a imparare a imparare. Se la scuola è solo un trampolino, a che serve pensare per pensare, gioire per gioire?

La parola d’ordine oggi, al Ministero del Merito e a cascata negli obbedienti istituti, è “didattica orientativa”, naturalmente proiettata nel futuro, matura compagna della più schiva “didattica per competenze”.

È probabile che la metamorfosi del nostro sistema scolastico sia iniziata proprio con l’introduzione del concetto universale di competenze (non sapere ma “saper fare”, sic!), che – per chi ancora colpevolmente lo ignorasse – si suddividono in “specifiche” (le banalotte hard skills) e “trasversali” (soft skills). Le trasversali sono ovviamente le meijo skills, più “utili” per un promettente destino lavorativo: organizzative e gestionali, di problem solving, personali, di leadership & management, di teamwork… e via inglesizzando. Una grande coperta sotto la quale tutto sta.

Ora si chiede agli insegnanti (novelli “facilitatori”) di inserire un pugno di attività – ma anche di più – tra quelle competenze, dentro una tabella nella quale anche il più idiota dei docenti può esporre i suoi prodotti.

Cioè, tu prof, con o senza il tuo consiglio di classe, organizzi un’attività che ti piace, ti convince o era semplicemente prevista nella tua programmazione – uno spettacolo su Assange, una conferenza sulla guerra, ma anche una lezione sulla poesia montaliana – e però stavolta la infili in uno schema facendola luccicare in vetrina: un’operazione estetica e formale che comporta naturalmente lavoro ulteriore, ma con l’illusione di far bene e sentirsi a posto con la coscienza.

Non si tratta insomma di cambiare nel profondo, piuttosto di incasellare pratiche consuete dentro uno schema che dice “sì, sto lavorando per l’orientamento, porto per mano gli studenti nel futuro, li aiuto a conoscere sé stessi e a compiere scelte oculate e utili”.

 

Oltre a tutto, una forma di altezzoso paternalismo, che – se gli studenti fossero reattivi -manderebbero all’inferno i professori, gli e-portfoli con “il proprio capolavoro” che gli tocca compilare e i loro patetici ammaestramenti.

A guidare la triste procedura, i “tutor” (da pronunciare alla latina o all’inglese secondo formazione), docenti che, volontariamente e dietro congruo compenso, avendo seguito un agile corso ora insegnano a insegnare come “imparare a imparare” (una delle “competenze chiave” della rivoluzione in atto, la più amata perché si mette con tutto come il beige).

In un sistema siffatto – dove lo studio cessa ufficialmente e per sempre di essere scavo, ricerca, contemplazione, tempo dedicato a quell’otium che i Latini contrapponevano al negotium –, in una istituzione che tende a finalizzare l’esperienza speculativa assegnandole una specifica utilità, perché mai studiare la Letteratura, la Storia, la Filosofia?

Vero è che perfino Dante Alighieri si può agevolmente ficcare nello schemino delle competenze (“consapevolezza ed espressioni culturali”, qualsiasi cosa voglia dire, sembra attagliarsi all’uopo, e il giochino è fatto) e ragionevolmente se imparo a lavarmi le mani più volte al giorno attivo una competenza di cittadinanza: mi ammalo meno, non trasmetto germi al prossimo, do un buon esempio. Tutto può essere incasellato, è sufficiente compilare l’apposito modulo, scegliere le giuste skills e inviare. È molto noioso ma non è difficile, perciò pochi resistono.

La domanda tuttavia è: perché?

Perché non studiare Dante solo perché fa bene al cuore, ci fa sentire migliori, ci connette con il profondo, ci insegna a stare meglio qui e ora, non serve?

Per quale accidenti di motivo non potremmo amare un’opera d’arte per sé, perché ci fa venire i brividi e ci fa amare il fatto che ci siamo e che sentiamo la bellezza?

Quand’è che abbiamo cominciato a non appassionarci alla Storia o alla Fisica o alla Geometria se non ci proietta nel futuro e magari alla vita che immaginiamo per noi non serve a un tubo oppure servirà ma ora sto facendo altro perché imparo a pensare e non so cosa farò e manco lo voglio sapere?

E quando, quando abbiamo cominciato a credere che, in luogo del magnifico e inutile stupore che ci regala una novella di Verga, dobbiamo “attivare la capacità di imparare a imparare”?

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