“La politica non dev’essere onnipervasiva. Una delle prime condizioni della libertà è scoprire il confine oltre il quale la politica non può andare, e la letteratura è uno dei mezzi che permettono ai giovani (e ai vecchi) di scoprirlo.”
Qui sopra è riportato uno dei formidabili pensieri articolati all’interno di un libro non troppo conosciuto e scoperto recentemente, o anzi meglio, divorato recentemente: “la cultura del piagnisteo”, ideato dall’istrionico autore Robert Hughes. La cultura del piagnisteo lo considero più che un libro un vademecum, una bibbia profana d’una società allo scatafascio, artificia e artificiale, non lontana dalla promiscuità di Sodoma e Gomorra; non lontana dall’egemonia pestilenziale e dai palliativi salassi; una delucidazione dal ciarpame, dal medioevo culturale che ci ha infettato.
Robert Hughes, australiano di nascita e americano di adozione in età adulta, centra in pieno l’attualità, nonostante la prima pubblicazione del libro risalga a circa venticinque anni fa. Nulla di anacronistico insomma; profetico, invece, nei confronti nostri che ci sentiamo occidentali, ma non siamo altro che l’oriente degli Stati Uniti d’America. Il libro come si può intuire è focalizzato sulla cultura americana di qualche decennio fa.
Si dice che sia Napoli la sfera di cristallo da cui scorgere passato presente e futuro del mondo intero, ma non sono d’accordo; sebbene con un ritardo di circa 1500 anni, sono gli Stati Uniti d’America i detentori di questo ambìto (?) fatuo destino. La cultura del piagnisteo ne è l’esempio calzante.
Prosaicamente, in linea generale di stesura, non ha nulla di poetico per cui possa scalzare i testi che più amo, però, contestualizzato nel genere a cui appartiene, è al primo posto.
Cinico, nichilista ed anti-politically correct; magnetico, burbero e, concedetemi il francesismo, stronzo.
Robert non ha peli sulla lingua e non te le manda di certo a dire; sa distruggere il perbenismo senza dover indossare maschere, riesce a disinnescare l’elevazione verbale di massa e manda a quel paese i baciapile resi schiavi dai dogmi religiosi e dai dettami politici.
Affronta questioni etiche e incongruenze culturali: dall’aborto all’arte, dal rock svenduto alle major alla paura degli “invasori”, fino a rapportarsi ad un Dio vigile, capace di controllarti (e punirti) se ti fai le seghe, ma cieco dinnanzi a guerre, bambini che muoiono per la fame e mali incurabili.
Un libro non di destra e non di sinistra. Un testo anarchico che prende le redini della coscienza e viene ben sorretto da una solidissima base di nozioni.
Un regolamento; un firmamento che concerne con il mio modo di pensare e vedere le cose, libero da ganasce. La multiculturalità è in fondo questo, un grande mosaico fatto di tante tesserine, di cose belle e di cose meno belle; plurime realtà non criticabili nel singolo.
Non ho mai amato la politica e mai la amerò. Un travagliato rapporto a distanza, simile a quello di due cani che neanche si considerano, più simile ancora all’immagine di uno spettatore sordomuto, inabile al nuoto, che fissa ebete dall’altura di una scogliera, una nave che affonda, limitandosi ad osservarla. Impotente. Incompetente. Negligente e menefreghista.
Siamo nel periodo della depoliticizzazione; il vero ruolo della classe politica non è quello di portarci alle urne, ma di allontanarci da esse, e il sunto di questo mio sermone, seppur possa sembrare diverso da ciò che sto per dire: è quello di votare!
Voto? Quale voto?
Il voto, sì. Un voto non di partito, un voto metabolizzato da una riflessione accurata ed intelligente. Sospinta non dalla pancia, non da vecchi ideali da ristrutturare o da nuovi ideali confezionati da promesse elettorali.
Non so dirvi cosa sia giusto o sbagliato, e non sto qui a teorizzare l’alchimia perfetta tra pensiero e partito; l’unico consiglio che mi sento in grado di darvi è quello di prenotare, prima del 4 marzo, una copia di questa “Cultura del piagnisteo”, di cui facciamo parte.
Addormentandomi non sognerò di certo una rincorsa affannata alle calcagna di una bandiera sempre lontana e tormentato da tafani. Il mio sangue non sgorgherà a fiumi e dalle ferite non usciranno vermi putridi e schifosi. Tutt’al più mi farò un giretto nell’inferno, facendo una chiacchierata con l’uno e con l’altro.
Cercherò Robert ed i ragazzacci che come lui meritano un posto d’onore nelle scatole craniche di tutti noi. L’inferno lo viviamo tutti i giorni.
“…il museo continuerà ad assolvere il compito di aiutarci a scoprire una grande, ma sempre parzialmente perduta civiltà: la nostra.”
Riccardo Bonsanto