Il rogo di Notre Dame
A proposito dell’articolo di Franco Di Giorgi
Notre Dame de Paris vestita di fiamme, e nera di fumo, ha esaltato il senso di impotenza e di disperazione che coglie gli esseri umani di fronte alla catastrofe che colpisce i simboli e le cose a cui l’uomo ha attribuito, ingenuamente, il dono dell’immortalità. Un’immortalità del tutto umana, fisica, materiale e di conseguenza fittizia e caduca come quella del corpo, seppur più duratura. L’immediata intenzione riparatoria, che ha fatto seguito all’evento, con la spontanea e sproporzionata, rispetto alle reali necessità, raccolta di fondi per la ricostruzione, ha evidenziato quanto più valore si attribuisca alle creazioni artistiche dell’uomo piuttosto che alla vita umana in sé.
Il professor Franco Di Giorgi, su questo giornale, ha ribadito questo concetto sottolineandone l’ovvietà che a noi però sfugge proprio come la lettera rubata nel racconto di Allan Poe, che lo stesso Di Giorgi cita nel suo articolo. Ciò che non riusciamo a vedere è proprio quello che abbiamo sotto gli occhi.
Notre Dame affumicata fa sgorgare lacrime e aprire i cordoni della borsa più delle vittime umane delle catastrofi naturali, delle guerre o della povertà.
A mio parere la cattedrale di Notre Dame, ma anche altre opere di pari valore, sono soggetti privilegiati nell’immaginario collettivo perché, in esse, noi proiettiamo, ingenuamente, il nostro desiderio d’immortalità fisica, un sogno impossibile che coltiviamo da sempre.
L’opera d’arte in cui ci identifichiamo, sfidando i secoli, allontana in noi l’idea della morte intesa come fine della materia, in quanto noi continuiamo a vivere simbolicamente e quindi anche tangibilmente nell’opera d’arte che ci rappresenta come patrimonio dell’umanità. Naturalmente questo è un fraintendimento che, però, è radicato visceralmente soprattutto nella nostra mente occidentale, incline a svariati processi di rimozione circa l’ineluttabilità della morte fisica.
Notre Dame è una sfida al tempo, una luce che resiste ai secoli, che proietta l’illusione della permanenza oggettiva in un mondo che, per dirla con i Buddisti, permanente non è. E questo senso di indistruttibilità dell’opera rispetto alla precarietà e alla finitudine della singola vita umana ce la fa sembrare più importante della vita stessa. Gli oggetti ci sopravvivono e le opere artistiche ancora di più. E il preferire l’arte alla vita è appunto la nostra dannazione, come dice Di Giorgi, se ho capito bene il suo pensiero.
Opera d’arte e vita umana, però, si ricompattano sullo stesso piano quando, ad esempio, entrambe soffrono le conseguenze di una guerra. Sotto le bombe, le lacrime per Notre Dame in fiamme diventano innanzitutto lacrime di chi teme per la propria vita. Vita e arte diventano allora, per dirla ancora con Di Giorgi, lo stesso “pattume”, anzi, dico io, la paura per la propria vita supera, in urgenza, quella per il destino della cattedrale.
In tempo di pace questo disequilibrio, tra arte e vita, potrebbe ricomporsi considerando l’opera d’arte comunque usurabile e soggetta al rischio di catastrofe naturale o indotta. Inoltre l’oggetto d’arte non dovrebbe essere considerato come un fine ma, principalmente, come un mezzo per la propria evoluzione, spostando il desiderio di immortalità dal piano materiale a quello eminentemente spirituale.
In ogni caso, nonostante la tendenza generale sia quella, come sottolinea l’evento di Parigi, di considerare più alto il valore dell’opera rispetto alla vita che la genera, la vita, di fatto, conserva una sua centralità. Tanti hanno pianto per il rogo di Notre Dame ma il pensiero di tanti altri si è, invece, interrogato e concentrato sul valore della vita umana che non suscita altrettanta commozione e altrettanta solidarietà.
La vita umana dovrebbe essere prioritaria rispetto all’arte, se non altro perché l’arte nasce dal vissuto più profondo dell’uomo. Senza vita non c’è arte.
A riprova di ciò credo che, davanti alle lingue di un incendio che lambisce un Tiziano e, contemporaneamente, un gattino che miagola nel terrore del fuoco, d’istinto, allungando le mani, tenteremmo di salvare quest’ultimo.
Pierangelo Scala