“Confini: chi entra (e altre questioni ideologiche)”: “La terra promessa dei Goldburt”, mostra fotografica di Pietro Masturzo; Polveriera Castelfidardo, Ancona, 25.05.2017; anche, La terra promessa dei Goldburt, Catalogo, Corsiero Editore, 2016
La mostra “La terra promessa dei Goldburt”, di Pietro Masturzo, alla Polveriera Castelfidardo ad Ancona, ha solo 28 immagini. Esse descrivono momenti della vita giornaliera di una giovane coppia russo-americana e dei suoi sette figli piccoli. La coppia ha deciso, inseguendo un sogno personale (ed un’“illuminazione religiosa” di stampo ultraortodosso) di abbandonare la “civiltà occidentale” e di insediarsi, o meglio di accamparsi, in un pezzo di terra illegale nelle terre contese della Cisgiordania palestinese (l’insediamento israeliano di Mitzpe Agit). Una terra promessa e precaria, come ogni loro giorno, ma finalmente raggiunta, dove vivere sobriamente e alla meglio e allevare i figli con il proprio stile di vita, con la loro autonomia senza vincoli politici e sociali, con il loro senso ultraconservatore della decrescita.Tranne alcune che hanno una forte autonomia (la casa nella notte, la famiglia davanti alla stufa), il resto delle immagini sono come parole senza sintassi, devono essere viste una accanto all’altra per percepirne l’ultimo senso. Immagini senza senso autonomo ma impellenti per la loro assoluta quotidianità, la loro naturalità, la loro mancanza di impostazione: un cane, bambini che giocano, un uomo che fa il bagno, macchine parcheggiate, il cancello di una casa…Eppure, nonostante la mancanza di autonomia delle immagini, basta vederle insieme perché anche senza info percepiamo come esse evidenzino la presenza di un obbiettivo volontario, non una fuga ma un andare incontro ad un sogno, non una assenza ma la presenza di qualcosa di agognato, non una dissoluzione ma la costruzione volontaria di una situazione. E’ l’insieme che arricchisce di segni e di sensi ogni singola immagine. Basta guardare. Anche senza info percepiamo, però, con una sintassi chiara e concisa, strettamente fotografica, che si tratta di una situazione individuale. In un certo senso, di un atto di libertà e di ribellione. Di una scelta personale che va oltre la dipendenza politica e sociale delle persone fotografate.Difficile mostra e perciò interessante. Pregnante esempio di fotografia più antropologica che giornalistica che costringe lo spettatore a riflettere ed a misurarsi con diverse e non sempre compatibili posizioni ideologiche, sempre tramite accorgimenti della fotografia: i sottili dettagli del paesaggio, l’ambigua normalità delle azioni mostrate e i diversi retroterra culturali e politici che segnala.La mostra forma parte di un unico e intelligente progetto (“Confini”) che include anche quella di Dario Mitidieri,“Lost Family Portraits”, sulla diaspora siriana, ed una terza, di Valerio Vispuri, sulla condizione dell’uomo che non può muoversi perché confinato. Tre dimensioni del confine. Tre occasioni per riflettere e godersi la buona fotografia.
Paco Domene