Quello che l’acqua nasconde, regia di Ivana Ferri, con Lorenzo Bartoli, Valentina Virando, Bruno Maria Ferraro, Lorenzo Paladini e Andrea Fazzari. Teatro Giacosa, Ivrea.
“Lo sai perché sono finito a Villa azzurra Susan? Sono finito in manicomio perché ho bevuto un bicchiere di vino. Quando avevo nove anni mia madre è morta, mio padre mi ha messo in un orfanotrofio, non riuscivo a relazionarmi, classificato come ragazzo difficile, non riuscivo a legare con nessuno per cui non potevo che essere pazzo. Una domenica dopo pranzo, mentre gli altri bambini facevano un sonnellino, mi venne una gran sete, la porta della cucina era aperta, sul tavolo quattro bicchieri di vino; li svuotai come avevo visto fare ai miei. Dopo una settimana ero a Villa Azzurra: asociale con qualità di etilismo ereditario”.
A raccontarlo è Edoardo Rubessi, il protagonista dello spettacolo Quello che l’acqua nasconde (tratto dall’omonimo romanzo di Alessandro Perissinotto) andato in scena giovedì 15 novembre sul palco del Teatro Giacosa. Dopo aver trascorso trentacinque anni negli Stati Uniti, l’affermato genetista decide di tornare a Torino con la moglie Susan sperando invano che il tempo trascorso all’estero sia stato di sufficiente aiuto a cancellare l’atroce passato lasciato alle spalle.
Villa Azzurra era il manicomio infantile di Grugliasco, un tempo diretto da Giorgio Coda -denominato l’elettricista per l’uso sadico di elettroshock-, affiancato dall’assistente Giovanni Balistreri, chiuso grazie all’approvazione della legge 180 e all’inchiesta condotta da L’Espresso nel 1970, documentata con la pubblicazione di foto scioccanti. Ottanta fotografie in bianco e nero testimonianze della violenza sprigionatasi tra quelle mura che si sfogava in servizietti sessuali estorti ai bambini, spesso incatenati a termosifoni, ai letti, malmenati, e quasi strozzati con lenzuoli per punizione. Di queste spicca quella di Maria, immortalata nella sua crocefissione, legata al letto, nuda ed esposta all’occhio della macchina fotografica, umiliata e svergognata fissa l’obiettivo con uno sguardo vuoto ed assente. Maria non sopravvivrà alle barbarie e morirà poco tempo dopo la sua liberazione. A soli quattordici anni.
La rappresentazione, così come il romanzo, si presentano come denuncia, atti a rendere cosciente chi non ha potuto toccare con mano il punto finora più basso della storia dell’umanità, la violenza degli ospedali psichiatrici, dove persone con disturbi mentali, anziché essere seguite da personale specializzato, venivano affidate a bestie, a perpetratori; internate in veri e propri lager post seconda guerra mondiale. Additate dai ‘sani’ come ‘matti’ , rinchiusi in dette strutture talvolta dai famigliari stessi, e allontanati dalla comuni abitudini di vita quotidiana; comunità di persone realmente e legalmente ghettizzate su tutto il territorio italiano fino al 1978 con l’approvazione della legge Basaglia in materia di ‘accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori’ che determinò la chiusura dei manicomi.
Una realtà contemporanea, i fatti risalgono a poco più di qualche decennio fa, eppure nonostante i dovuti progressi e i passi compiuti verso la civilizzazione, tuttora i malati psichiatrici ricevono trattamenti non rispettosi nei confronti delle proprie condizioni. E’ la storia dei prigionieri psichiatrici, spesso e ben volentieri rinchiusi in carceri comuni, abbandonati a se stessi, senza il necessario aiuto e le giuste cure fornite da personale medico con una formazione idonea alle spalle. Sebbene lo Stato italiano abbia finora apportato miglioramenti non indifferenti alla situazione, sarebbe bene proseguire sulla medesima strada e far luce su questo argomento tremendamente delicato, senza aver paura di definire i ‘matti’ uomini, e come tali finalmente riconoscerli, tenendo tuttavia conto delle malattie diagnosticate.
A quarant’anni dalla legge Basaglia sul suolo italiano si presentano tuttora deficit e recriminazioni nella gestione e organizzazione di questo ambito, inevitabilmente a scapito dei malati. Più opportuno sarebbe invece attuare un programma di inserimento nella società, al fine del raggiungimento di un’accettazione sociale, e non una politica di segregazione.
Annalisa Mecchia