Dopo aver annunciato l’annessione, prevista per il 1° luglio, dei territori occupati in Cisgiordania, Netanyahu si ritrova in un’impasse. Il Consiglio Comunale di Torino, intanto, si esprime.
Lo scorso 14 luglio, mentre in Francia si festeggiava l’anniversario della presa della Bastiglia e si ricordavano gli eroici furori della Rivoluzione, il Consiglio Comunale di Torino approvava una mozione di inaspettata maturità: in essa infatti si invita il Governo a prendere posizione contro l’annessione, da parte di Israele, dei territori occupati in Cisgiordania e a sostenere i diritti dei Palestinesi, anche cessando la fornitura di armamenti alle parti coinvolte. Una nobile prova di responsabilità? Più o meno: il teatrino politico che si è consumato dietro le quinte di questa proposta è stato, come tradizione, lungo e imbarazzante. Sono diverse settimane, infatti, che la Consigliera pentastellata Valentina Sganga tenta di discutere la questione in aula, per di più richiamando all’ordine e alla responsabilità i suoi colleghi-rivali democratici con parole vibranti di sdegno al cospetto di una questione tanto delicata: “quando andrà male”, sembra aver ammonito Sganga, “perché – statene certi, cari ‘compagni’ – avete imboccato la strada per l’ennesimo fallimento, vi accorgerete che probabilmente era giunto il momento storico per affrontare le complessità e smetterla di coltivare i vostri stupidi interessi di bottega”. Effettivamente sembra che i consiglieri del PD abbiano fatto di tutto (anche uscire dall’aula!) per impedire la discussione in Consiglio sull’annessione, rimanendo fermi nell’opposizione all’odiatissima giunta Appendino.
Una giunta che, in realtà, se sulla carta si è sempre schierata dalla parte del popolo palestinese, nella pratica ha tenuto un comportamento piuttosto ambiguo: è bene, infatti, ricordare l’accordo siglato al grattacielo San Paolo lo scorso 18 novembre tra Torino City Lab e Israel Innovation Authority per promuovere lo sviluppo di progetti innovativi nell’ambito hi-tech. L’Appendino, entusiasta firmataria dell’accordo, era già stata attaccata dai suoi per aver ignorato con troppa leggerezza che l’innovazione tecnologica, in Israele, viene spesso utilizzata a scopi militari e di sorveglianza sulla popolazione palestinese. In tutta risposta, molti, tra cui eminenti intellettuali torinesi, si erano indignati nei confronti di chi sporca i nobili e puri fini della ricerca con questioni politiche: secondo il loro parere, l’accordo promuoveva la collaborazione scientifica tra due Paesi, dimostrando che gli orizzonti dell’innovazione non conoscono bandiere. Peccato che, all’orizzonte di qualunque ricerca scientifica, a maggior ragione se vi sono coinvolte le tecnologie, vi si può sempre scorgere un risvolto politico, militare o economico. Ciò che ci ostiniamo a chiamare Scienza (primo esempio di una serie di pompose maiuscole) in realtà – e sarebbe bene impararlo – non è né un bacino cui attingere la Verità né un’impresa di pura e immacolata dedizione al Sapere, ma è sempre, anche se variamente, legata al contesto politico e sociale che la sostiene.
L’annuncio dell’annessione della Gisgiordania
Ma rimandiamo la pur necessaria riflessione sul rapporto scienza-società e torniamo all’annessione: essa era stata annunciata per il 1° luglio dal primo ministro israeliano Netanyahu, meno di un mese dopo aver faticosamente vinto le elezioni grazie a un delicato accordo di governo con l’ex capo dell’esercito Benny Gantz, alla guida del partito centrista Blu e Bianco. Il piano era infatti contenuto nel contratto del governo concordato dalle due parti e prevede la definitiva annessione delle colonie già di fatto esistenti in Gisgiordania, nonché della fertile Valle del Giordano, già controllata militarmente dall’esercito israeliano. La data per dare il via all’operazione è passata, ormai, da due settimane; ma ancora oggi, tutto tace. Per intenderci: Israele già di fatto controlla militarmente e incoraggia insediamenti civili in Cisgiordania; questa è stata vittima delle spinte colonialiste di Israele a partire dalla fine della Guerra dei Sei Giorni, nel 1967; in seguito, con gli accordi di pace di Oslo, nel 1993, la Cisgiordania era stata divisa in tre aree (A, B, C) a gestione condivisa tra israeliani e palestinesi, in vista di un futuro Stato palestinese di cui avrebbero fatto, con ogni probabilità solo parzialmente, parte. Tuttavia, questo non è servito a frenare il processo di insediamento di civili israeliani nelle colonie (oggi si stima che vi abitino circa 600mila persone), incoraggiati dalla costruzione di infrastrutture e dall’erogazione di servizi da parte dello stesso stato israeliano, nonché, anche a livello costituzionale, dalla legge dello Stato Nazione.
Il sodalizio Trump-Netanyahu
Ma allora, se Israele già di fatto possiede quei territori, perché esita a formalizzare l’annessione? La situazione è, come sempre, complessa. Primo nodo cruciale della questione, non ci stupisce, sono gli Stati Uniti: da sempre alleati di Israele, hanno notevolmente radicalizzato il proprio spirito filo-sionista con l’elezione di Trump. Il sodalizio Trump-Netanyahu ha regalato grandi gioie a entrambi finora, ma la situazione del presidente americano non è più tanto rosea, e non si può scommettere su una sua rielezione a novembre. Questo influenza necessariamente la questione dell’annessione: da una parte, Trump è “distratto”, attualmente, da altre questioni, e non ha formalmente dato il via libera per l’annessione. Certo, risale a gennaio la presentazione, da parte del presidente USA, di una proposta per la soluzione del conflitto israelo-palestinese: un piano retoricamente definito “l’accordo del secolo” ma, in realtà, ben poco soddisfacente dal punto di vista del popolo palestinese, le cui autorità si sono categoricamente rifiutate di prenderlo in considerazione. Effettivamente, anche secondo il punto della comunità internazionale e di chi ha analizzato il documento, la proposta è fortemente sbilanciata a favore dello stato di Israele, e in particolare della sua parte più a destra e nazionalista, e di conseguenza discriminatoria nei confronti della popolazione palestinese: si è a giusto titolo parlato di bantustanizzazione per descrivere la gestione territoriale proposta da Trump e riproposta anche nel piano di annessione annunciato da Netanyahu. Infatti, ai Palestinesi verrebbe lasciato un territorio ancora più frammentato di quello che abitano oggi – seppur disturbati dalla presenza israeliana – pregiudicando ulteriormente la già lontana possibilità di uno Stato palestinese; oltre alle perdite di territori (e per giunta dei più ricchi e fertili, come la Valle del Giordano), dunque, gli arabi delle colonie assisterebbero anche alla frantumazione di una già fragile continuità territoriale, sulla scia di quanto attuato dal regime sudafricano a scapito della popolazione di origine africana durante gli anni dell’apartheid. Insomma, l’esatto opposto di un passo avanti verso la pace, come invece si ostinano retoricamente a dichiarare i due leader annessionisti. Ma, come si è detto, le elezioni americane sono alle porte e, se dovesse vincere il candidato democratico Joe Biden, Netanyahu dovrebbe mettere una pietra sopra al suo piano d’annessione: il leader dei democratici si oppone infatti alla formalizzazione dell’occupazione Israeliana in Cisgiordania. Inoltre, se Netanyahu compisse ora un’azione affrettata e procedesse all’annessione potrebbe, in caso di una futura vittoria democratica, deteriorare irrimediabilmente i rapporti con gli Stati Uniti.
Le priorità interne di Israele. La pandemia.
Oltre che dall’incertezza sull’appoggio esterno, Netanyahu è frenato anche da una delicata e precaria situazione interna. L’alleato al governo del primo ministro Benny Gantz, destinato a sostituirlo nella carica il prossimo 24 maggio, sta temporeggiando a sua volta: i sondaggi rivelano infatti che circa due terzi della popolazione israeliana sono contrari all’annessione unilaterale, principalmente perché timorosi delle conseguenze sulla sicurezza interna ed esterna. In effetti, è quasi scontato prevedere, in caso l’annessione venisse attuata, grandi rivolte popolari nei territori occupati e violente reazioni dell’esercito israeliano, che non va mai molto per il sottile quando si tratta di sedare i moti di rivendicazione e rivolta arabi. Si avrebbe insomma una poco desiderabile quanto, tuttavia, inevitabile situazione da Seconda Intifada, che tanti morti causò da entrambe le parti. Per prendere tempo, il leader centrista propone di concentrarsi sull’emergenza pandemica, che in questi ultimi giorni è tornata a colpire in modo particolarmente intenso lo stato d’Israele e di fronte alla quale il problema dell’annessione non è né “sacro” né urgente. Nel frattempo, Netanyahu perde il sostegno degli elettori, rivelandosi poco incisivo nella gestione della crisi pandemica, e dei suoi sostenitori di estrema destra, che vorrebbero procedere all’annessione senza indugi; per non parlare del processo per truffa e corruzione ancora in corso e ben difficile da ignorare.
La condatta della comunità internazionale
Anche la comunità internazionale si sta massicciamente esprimendo contro il piano di annessione israeliano. L’invasione formale dei territori occupati violerebbe il diritto internazionale e allontanerebbe ancora di più la speranza di una risoluzione pacifica del conflitto per come sembrava essersi delineata a seguito degli accordi di Oslo nel 1993. Recentemente è stata presentata al Ministro degli Esteri della Commissione europea Josep Borrel una richiesta sottoscritta da undici paesi Europei, tra cui anche l’Italia: nel documento si chiede una presa di posizione ufficiale da parte dell’UE contro il piano d’annessione, nonché l’elencazione delle conseguenze, pratiche e legali, cui sottostarebbe Israele in caso Netanyahu decidesse di procedere ugualmente. Il primo ministro israeliano non si è dimostrato, finora, troppo amabile nel discutere con i vari capi di Stato europei, né aperto a una seria trattazione; ma la speranza, in Europa, è che con l’aggiunta di pressioni internazionali, che si aggiungono a una situazione già di per sé assai complicata, Netanyahu si senta costretto, infine, a cedere. In questo quadro, risulta apprezzabile e intellettualmente onesta la presa di posizione della Giunta comunale cui si è fatto cenno in apertura, anche se, su stessa ammissione della consigliera Sganga, le ripercussioni pratiche sono quasi inesistenti a fronte di un quadro tanto vasto e intricato.
In conclusione: si vedrà. È difficile prevedere come e quando Netanyahu deciderà di agire in Cisgiordania; la cosa certa è che l’imperialismo israeliano non si fermerà di colpo a causa della pandemia e di un paio di complicazioni diplomatiche. Il piano di conquista e invasione dei territori occupati affonda le radici nella storia dello stato di Israele, e l’opinione pubblica israeliana, ormai assuefatta dalla retorica della sicurezza e della difesa dal terrorismo palestinese, si oppone a quest’ultima iniziativa più per timore che per presa di coscienza dell’ingiustizia verso la popolazione araba. Le dichiarazioni simboliche e i movimenti diplomatici della comunità internazionale hanno sempre avuto, e sempre avranno, una portata limitata; ma l’attenzione dell’opinione pubblica e la preoccupazione per le sorti di questo ormai lungo e stanco conflitto continua ad avere un valore, poiché in gioco, e in modo esemplare, ci sono le eterne vicende degli oppressori e degli oppressi: di fronte ad esse, prendere una posizione è un atto di onestà in modo non solo astratto, ma anche e soprattutto performativo, poiché portare avanti narrazioni alternative a quelle che stanno rovinando la storia dell’umanità e dell’intero globo è il primo passo in direzione del cambiamento.
Lara Barbara