A proposito dell’infermiere di quartiere: ricordi del secolo scorso

Leggo dell’istituzione dell’infermiere di quartiere a Bellavista e San Giovanni e la mia memoria va immediatamente alla mia infanzia, agli anni ’70 della Torino operaia (con tutto ciò che in quel periodo questo significava) e al quartiere in cui sono cresciuta, Madonna di Campagna, un cuscinetto tra la periferia vera e propria e le zone attigue al centro città. A poche fermate d’autobus da Piazza Statuto, il quartiere Madonna di Campagna aveva (e ancora ha) al suo interno un piccolo borgo, detto Borgo Vittoria in onore alla vittoria sui francesi del 1707, nel quale io bambina ho abitato e del quale conservo i ricordi più belli e vividi della mia vita fino ai 10 anni. In quell’incantato (ai miei occhi) microcosmo, mia nonna materna lavorava come infermiera presso l’ambulatorio di tre medici della Mutua. E già, perché allora ancora non esisteva il Sistema Sanitario Nazionale come lo conosciamo ora, nato nel 1978, c’era però l’INAM, cioè un ente pubblico a cui era affidata la gestione dell’assicurazione obbligatoria in caso di malattia dei lavoratori e dei loro familiari, oltre che una serie di enti privati. Ebbene, mia nonna lavorava per tre medici in servizio per l’INAM, che passavano la maggior parte del loro tempo lavorativo in ospedale e solo alcuni giorni, e con un orario ridotto, nell’ambulatorio del quartiere.


In quell’ambulatorio io ci ho passato pomeriggi interi. Ne ero la mascotte e qualsiasi problema di salute avessi potevo beneficiare di ben tre medici che facevano a gara per visitarmi e curarmi. C’era il dottor Giacardi, cardiochirurgo all’ospedale Molinette ed ex ufficiale medico dell’esercito, che riusciva a riassestarmi una caviglia slogata in due rapide mosse, tipo karate (ed io le caviglie me le slogavo spesso perché andavo sui pattini, in bici e di corsa a rotta di collo). C’era il dottor Strobbia, medico di medicina interna all’ospedale San Luigi, il mio preferito perché era dolce e gentile (non come quel carrarmato di Giacardi) e mi trattava come una principessa. E poi il terzo dottore, di cui, ahimè, mi sfugge il nome ma che ricordo fosse piuttosto grassottello e simpatico. Mia nonna Carla, molto ben voluta da tutti e tre, soprattutto da Giacardi di cui era, tra l’altro, madrina del figlio maggiore, oltre che condurre tutte le operazioni di organizzazione e gestione dell’ambulatorio, aveva anche il compito di assistere i vari pazienti a domicilio, nei casi in cui si rendesse necessario. Andava infatti in giro per il quartiere, di casa in casa, a fare iniezioni, a controllare che i farmaci prescritti fossero assunti in maniera corretta e a tenere sotto controllo l’andamento della malattia per riferirne il decorso ai medici.


Bisogna precisare che allora non era consuetudine andare dal medico per ogni piccolo disturbo, il medico era ancora visto come l’ultima soluzione a cui far ricorso; quindi, il telefono di casa nostra squillava ad ogni ora del giorno e della notte e a mia nonna era chiesto di “andare a visitare” le persone affinché potesse valutare se fosse il caso o meno di consultare un medico: doveva fare triage, si direbbe adesso. Per questa “ritrosia” a recarsi dal medico o in ospedale, spesso mia nonna si trovò di fronte a situazioni disperate, alcune volte con esiti tragici. La morte di una dodicenne per febbre, non curata in tempo dalla famiglia, fu quella più terribile, quando la chiamarono ormai era troppo tardi.
Per tutti lei era “Madamin Carla, l’infermèra” ed io “la novoda ad l’infermèra” (la nipote dell’infermiera). Non potevo fare mezzo passo, ero sorvegliata a vista, ma anche molto coccolata. Era bello vedere nei visi di quella gente la gratitudine, il rispetto e la considerazione che avevano per mia nonna. Per questo non si fece alcuno scrupolo ad insegnarmi a fare le iniezioni all’età di cinque anni e, dopo un piccolo training sul mio Cicciobello, a chiedere ai pazienti che facessero da cavie. Roba che, a pensarci adesso, sarebbe da denuncia penale, ma che a quell’epoca nessuno ebbe a contestare. Il borgo era una grande famiglia in cui c’era fiducia e riconoscenza.


Se ora ripenso a quel mio piccolo mondo antico, vedo l’immagine nitida della forma e del colore del libretto degli assistiti: A5, marrone tortora, infilato in una bustina di plastica trasparente, che mia nonna aveva l’obbligo di richiedere e ritirare non appena il paziente varcava la soglia e che veniva poi impilato su un tavolino in base all’ordine d’arrivo e passato al medico, in modo che non ci fossero discussioni sui turni di visita. Altra immagine chiarissima è la sedia su cui mia nonna sedeva, in fondo corridoio esattamente di fronte alla porta di ingresso, ben visibile: io me la ricordo così, seduta lì per ore a “dirigere” il traffico di quell’insolita piazza, con il suo sguardo severo ma accogliente, lo chignon bianco candido, le braccia spesso incrociate e le gambe accavallate. Aveva una parola per tutti e tutti avevano una parola per lei, e ovviamente per me quando ero lì invece che fuori a giocare. Ricordo perfettamente soprattutto le due finestre dell’ambulatorio, a pian terreno, affacciate in una rientranza di Via Cardinal Massaia, di fronte ad un giardino privato tra i condominii di 9 piani, dove noi bambini giocavamo un po’ riparati. Da quelle finestre lei ogni tanto si affacciava per darci un’occhiata, consapevole che il suo occhio fosse più autorevole di quello delle varie madri. Era l’infermiera di quartiere, sentiva che la salute e il benessere di tutti erano anche una sua responsabilità ed accettava volentieri questo ruolo, che andava ben oltre la mansione e lo stipendio per essa corrisposto. Ricordo che a molti mesi dalla sua morte, sul finire del 1978, ancora ricevevamo telefonate da chi non aveva saputo e non aveva partecipato ai funerali. Una sera mia madre rispose ad una di queste in cui una signora chiedeva dell’infermiera Carla, le comunicò che era morta e si sentì dire: “e adesso io come faccio?”.


È bello che tornino queste figure professionali, umane, vicine, buone e necessarie. Madamin Carla approverebbe.

Lisa Gino