Gli insegnanti vengono percepiti come unici responsabili della diseducazione dei propri figli e in questa confusione di ruoli si perde la differenza che sta tra l’educare e l’istruire
Ormai del tutto impotenti e incapaci di educare i propri figli, avendo questi perso ogni senso di rispetto nei confronti dell’autorità genitoriale, le famiglie, di comune accordo con la società civile e con gli interscambiabili gestori della politica dell’istruzione, scaricano tutto il peso dell’educazione dei giovani sull’istituzione scolastica e in definitiva sugli insegnanti. Come se spettasse a questi ultimi il compito educativo. L’educazione della persona compete invece in prima istanza ai genitori, mentre per gli insegnanti essa è e deve restare una delle conseguenze necessarie dell’istruzione, ossia della formazione intellettuale attuata tramite la conoscenza o l’apprendimento delle specifiche nozioni inerenti le differenti discipline. Gli insegnanti educano istruendo, i genitori debbono collaborare all’istruzione educando.
Istruire, però, non implica solo la semplice trasmissione di conoscenze, metodologie e competenze. Ogni istruttore serio e responsabile intende infatti l’istruire in senso etimologico, ossia come “in-struire”, come un in-struĕre, ossia come uno “struĕre-sopra”. Ora, dal momento che il sistema scolastico di istruzione statale fornisce e prevede (ancora) in-struttori, tale in-struire si dovrà intendere sostanzialmente come un con-struire. Cioè non solo come un aiutare, un accompagnare lo studente a costruire e a coltivare i semi culturali da lui stesso pre-scelti su quanto ha già di suo, in sé, nella sua struttura originaria, nella sua anima, nella sua terra diremmo (da qui il senso vero e originario della “cultura”), ma anche come un in-struirsi, giacché, come diceva Platone, nel dialogo formativo, nell’interlocuzione che ha di mira la verità, si in-struiscono entrambi gli interlocutori, sia il docente sia il discente. Struĕre significa infatti “porre a strati sopra”, e in questo la funzione del con-struttore, del docente, è quella di pre-disporre, di pre-parare, ossia di aiutare il discente a pensare, cioè a coltivare se stesso sulla propria terra, sulla propria anima. Questo dovrebbe essere lo scopo ultimo, il supremo obiettivo di ogni istituzione scolastica.
La scuola è in altre parole un sistema educativo-istruttivo, la cui ragion d’essere risiede in una duplice funzione dell’educazione: nell’educazione al pensiero e nell’educazione del pensiero. La prima funzione corrisponde all’attività del pensare ricettivo-cumulativo, vale a dire all’attività della riflessione su elementi disciplinari specifici che vengono memorizzati come dati culturali che determinano il cosiddetto “bagaglio culturale”. La seconda funzione dell’educazione corrisponde all’attività del pensare attivo-formativo. La specificità di quest’ultimo consiste nel fatto che un tale pensare non è solo formativo, ma è soprattutto auto-formativo. Un tale pensiero ci forma non solo come studiosi di una particolare disciplina, ma anche come persone con un certo profilo, come depositari di certe idee. Le quali risultano tanto più singolari quanto più efficace e profonda si è dimostrata l’attività auto-formativa del pensare. Questa seconda funzione educativa del pensare è formativa in quanto educazione al pensiero e all’attività del pensare in generale, e come tale essa è presupposta e richiesta da ogni singola disciplina nella sua specificità. È invece auto-formativa nella misura in cui, pensando, consente ad ogni singolo individuo pensante di dar forma e di ordinare, sotto forma di idee, concetti e opinioni personali, tutto quel contenuto spirituale che ognuno di essi trova in sé in modo vago e confuso sin dalla nascita. È un contenuto innato che ci contraddistingue nella nostra specifica e assoluta singolarità, nella nostra particolarità, nella nostra più profonda natura. È insomma il nostro tesoro più prezioso, collocato all’interno di uno scrigno quale è la nostra anima, il nostro cuore, la nostra mente. La chiave di questo scrigno o, per meglio dire, la combinazione segreta e misteriosa di questa cassaforte spirituale è da ricercare solo all’interno di noi stessi, in quanto è inscritta in quel nostro pensiero singolare. Quasi sempre, però, – e questa è una delle più dolci meraviglie di cui la vita ci può far dono – accade che a trovare e a indovinare quella cifra non siamo noi stessi, ma un “altro”, e sempre in maniera inaspettata. Questo “altro”, che può indovinarci, che può rintracciare e decifrare il numero magico capace di aprire il nostro cuore, può consistere sia in uno degli elementi etero-formativi offerti dalle diverse discipline, sia in uno degli elementi auto-formativi che, pensando, ritroviamo dentro di noi e che sentiamo pulsare e gemere ancora prima di aprire lo scrigno.
A fronte di queste linee ideali, cosa succede invece nella realtà attuale della nostra scuola? Cosa vediamo quasi ogni giorno sulle pagine dei giornali? Vediamo che tutto l’astio che i genitori provano verso se stessi per non essere stati capaci né di educare i propri figli né di realizzare se medesimi lo riversano sulla classe docente, divenuta (non certo casualmente) uno dei capri espiatori della società contemporanea, grazie a una politica irresponsabile dell’istruzione e della cultura (ahimè sostenuta anche dalla miopia di certi intellettuali di grido) nonché a un sistema mediatico connivente. E ciò perché le regole politiche e le norme sociali consentono ai genitori di poter trasferire tutto lo sdegno che essi provano dinanzi a se stessi verso gli insegnanti, percepiti come unici responsabili della diseducazione dei propri figli. La grave situazione di border line a cui lo Stato, con le sue pessime riforme scolastiche, sta riducendo le maestre e i professori, accusandoli per di più di essere gli unici responsabili di questa situazione, fa pensare ai nazisti che, installando i loro campi nel fango, punivano i deportati perché non potevano lavarsi. Giacché è sempre più chiaro che, da tempo, per un motivo o per l’altro, si stanno creando le condizioni per rendere impossibile agli insegnanti di svolgere adeguatamente il proprio lavoro.
Dando inoltre ascolto ai dettami della moda, che oggi aborre i segni dell’invecchiamento, ed equiparandosi giovanilisticamente ai figli – anzi, volendo talvolta apparire ancora più giovani dei figli medesimi – i genitori manifestano la stessa immaturità dei loro pargoli. Coalizzandosi nella violenza fisica o verbale, come pure nell’azione legale contro una classe docente ideologicamente (ma certo non culturalmente) indebolita, entrambi dal loro punto di vista innaturale vogliono reciprocamente dimostrare quella maturità che in realtà non posseggono. Gli unici ad essere esposti, ad esporsi e a mettere in evidenza questo loro immaturo e insensato velleitarismo sono proprio gli insegnanti, specie quelli che hanno vissuto altre epoche della scuola. In questa loro esposizione, essi sono sempre più a rischio, perché, in quanto etichettati come vittime, sono lasciati da soli a fronteggiare quell’insana coalizione. Oltre che dagli stessi sindacati, sono stati abbandonati sia dalla cosiddetta società civile, sia dalla magistratura sia dagli innumerevoli ministri dell’istruzione. Salvo poi – dimentichi di tutta questa grave situazione socio-pedagogica determinata da dolente indolenza e da responsabile irresponsabilità – lamentarsi, attraverso i media, delle reazioni impulsive di taluni insegnanti e delle azioni deplorevoli di alcuni giovani. I quali, tra l’altro, proprio per la carenza di quell’auto-formazione intellettuale, sembrano sempre più inclini a compiere scelte politiche istintive e anticostituzionali. E ciò lascia intendere che dietro la questione tutta italica della carota e del bastone vi sia ancora e sempre quella della pagliuzza e della trave.
Franco Di Giorgi