Il caldo è afoso e la due cavalli smaltisce i chilometri, ad andamento lento, sul percorso che mi porterà in Val Pellice. Come per ogni luogo, in cui non sono mai stato, mi gusto le novità del paesaggio e mi godo il gradevole vortice di aria che si crea nell’abitacolo, a cappotta completamente abbassata. La meta è il paesino di Bobbio Pellice, 730 m. di altitudine a ridosso delle Alpi, e ciò che mi spinge nella sua direzione è l’intento di partecipare a un raduno di queste piccole Citroën che sfidano il tempo con sorprendente freschezza. La duecavalli è uno degli antidoti alla vecchiaia e io la uso spudoratamente per preservare il mio spirito ludico. A destinazione, mi reco al punto previsto per il ritrovo. Per quanto non manchi di qualche connotazione leggermente kitsch, lo spazio è ben distribuito tra chioschi per il ristoro e aree deputate ad accogliere le nostre tende da campeggio e le vetture. Inoltre gli alberi, in un intreccio di chiome, regalano l’ombra provvidenziale per il nostro relax. Al centro dell’area c’è un laghetto artificiale e, al suo interno, sotto il pelo trasparente dell’acqua, sguazzano le trote. Sulle rive del laghetto, quasi a complemento del quadro, ancheggiano splendide oche bianche. Tutto sembra procedere idillicamente, con tanto di conversazioni divertenti con gli amici, finché i due giorni del raduno non scivolano verso l’epilogo domenicale quando, nel pomeriggio, sopraggiungono famigliole di gitanti.
A quel punto mi accorgo che le trote, lì a bagno, non sono elementi decorativi del paesaggio, come ingenuamente avevo pensato, ma prede ambite per la cena. Faccio in tempo a osservare la scritta di un cartello, che invita a uccidere subito le trote senza lasciarle agonizzare nell’aria, che la pesca, questo sport ingannevolmente ammantato di visioni naturalistiche a sfondo di panorami lacustri e silenti, si rivela nella sua realtà più demistificata. Le canne da pesca vengono passate dai genitori ai bambini, in alcuni casi poco più alti delle bianche oche all’intorno e, in un crescendo di eccitazione collettiva, l’amo sibila verso l’acqua pronto all’abbocco. Le trote, volontariamente affamate dai gestori del laghetto e dai divieti al pubblico di dar loro del cibo, perché non si presentino incerte all’appuntamento con l’amo, si lanciano all’assalto del bocconcino fatale. A quel punto una, due, dieci canne da pesca si tendono, i bambini starnazzano più delle oche, i genitori preparano le digitali per immortalare l’attimo in cui il pesce disegnerà un piccolo arco guizzante nell’aria prima di atterrare tra i piedi dei presenti. Quando questo avviene grida e gridolini raggiungono il culmine, i bambini battono le mani, i genitori fieramente strabiliano per l’impresa riuscita del loro piccolo campione. Ma non è finita perché adesso il pesce deve essere ucciso senza prolungarne l’agonia. Noto allora che il papà anzi i papà consegnano ai loro piccoli un bastone squadrato, evidentemente messo a disposizione dai gestori dell’ameno bacino artificiale, di una lunghezza di circa 50 centimetri. A quel punto i bambini, con la trota esausta in una mano e il bastone nell’altra, si ingegnano nel tentativo di stramazzare definitivamente il pesce colpendolo, istruiti dai grandi, a colpi di bastone sul muso. Ma l’eccitazione è alle stelle e la piccola mano è insicura e colpisce a casaccio cosicché la trota non vuole morire e il suo sangue schizza all’intorno e i colpi si ripetono con maggiore precisione e violenza. Alla fine, quando la trota si fissa nell’immobilità della morte, un’ovazione genitoriale saluta l’impresa. I bambini guardano divertiti, e qualche genitore si affretta a pulirne le mani ancora rosse di sangue. Questo spettacolo di natura indigesta, almeno per i miei gusti, va avanti per tutto il pomeriggio, confermando la sensazione di quanto sia ormai reificata la nostra realtà. Le trote, nella convinzione generale, non sono altro che jo-jo saltellanti. Bambini, sollecitati da genitori inconsapevoli, schiamazzano nell’ebbrezza di un nuovo gioco in cui dimostrare le loro capacità. La trota è un oggetto che non si capisce come mai si muova da sé. A qualche mia risentita osservazione sono emersi questi commenti: “Nessuna pesca in genere prevede pietose eutanasie del pescato. Anche i pescatori esperti, senza ricorrere al bastone, sfracellano il pesce sulle pietre. Ai bambini bisogna insegnare che le trote non nascono sui banchi del supermercato. Gli ideali animalisti delle anime belle sono conditi di ipocrisia. Il mondo va così da millenni e così finirà. L’uomo è onnivoro. La pesca nel laghetto ti dà fastidio mentre quella lontana dagli occhi, che è la stessa cosa, non ti turba perché non la vedi. I pesci del laghetto artificiale sono fortunati perché, mediamente, vivono anche qualche giorno in più del pesce che viene industrialmente macellato.”
Una voce fuori dal coro, assurda per altri versi e piuttosto indicativa per confermare l’insensibilità generale, ha invece ricordato che pescare e mangiare le trote di un laghetto artificiale è deleterio per la salute in quanto le trote sono imbottite di antibiotici perché non si ammalino, cosa che comprometterebbe l’allevamento.
E così, con queste immagini negli occhi di bambini scatenati che rompono il muso alle trote, me ne torno a casa sulla mia duecavalli un po’ meno felice di quando sono arrivato.
Per quel che mi riguarda, credo che non mi avvicinerò più a posti del genere, dove atteggiamenti selvaggi vengono giustificati come espedienti di lucro o di “sportivo” divertimento all’aria aperta.
In definitiva laghetti artificiali ospitano allevamenti di trote nutrite e gestite artificialmente che poi verranno cucinate per una cena che non farà bene alla salute. Mi pare chiaro che l’uomo, artefice di tutto questo, stia abdicando alla sua natura migliore ormai declassata a mero artificio.
Pierangelo Scala