“Confini: chi esce (e altre questioni carito-liberiste)”: “Lost Family Portraits”, mostra fotografica di Dario Mitidieri; Polveriera Castelfidardo, Ancona, 25.05.2017
Bambini mocciosi con il fiato corto o le pance gonfie, gli occhi assediati dalle mosche, o ragazzini tristi senza gambe che si trascinano con stampelle improbabili; donne invecchiate e magre, i seni prosciugati, al limite della disperazione e del pianto. Oppure bambini che sorridono tristi, in accoglienti braccia, strappati in extremis alla fame e alla morte, ragazzine che giocano, in uniforme, da poco sottratte alla violenza, con l’allegria della giovinezza. Oppure anziani tristi a cui sorridono premurose generose donne che li curano. Immagini tutte scagliate con la fionda direttamente al cuore di noi occidentali. Tramite ogni mezzo. Incaricate appositamente dalle ONG ed affini a fotografi di fama, sponsorizzate spesso da grosse corporazioni economiche o istituzioni religiose e non. Immagini che ci chiedono soldi. Soldi per risolvere emergenze, aumentare il fiato degli affaticati, attutire la loro fame, togliergli dagli occhi le mosche, dare protesi ai ragazzini senza gambe, non lasciare morire di abbandono i vecchi, conservare per il futuro la recuperata felicità delle ragazze. Soldi per risolvere emergenze fatali, inevitabili, puntuali, indiscutibili, irrimandabili. Adesso. Sempre adesso. Sempre. Adesso. Adesso…
E’ da quaranta, cinquant’anni, ormai, che queste immagini sollecitano l’attenzione del nostro cuore. Ogni volta di più. E il nostro cuore risponde. Il cuore dice sempre sì. Ma la nostra testa si ribella. Perché la realtà che sta loro dietro richiama il lavoro della nostra testa. E ci poniamo il problema, non di negare le evidenti e terribili realtà che denunciano, ma se debbano essere queste le immagini che le rappresentano.
Il nucleo della fotografia filantropica è diventato il richiamo alla carità mediante l’emozione e il senso di solidarietà o di colpa (anche di convenienza) del privato; una carità angosciosamente inevitabile, divenuta strutturale e funzionale allo stesso sistema di ingiustizia, di mancata redistribuzione delle risorse quando no di secco sfruttamento, che il neoliberismo, ormai senza controllo sociale, promuove ogni volta di più. La fotografia filantropica non informa (in realtà non è giornalistica bensì pubblicitaria), non mette in discussione le situazioni, anzi, le depoliticizza e le decontestualizza, favorendone involontariamente il permanere puntuale, prevedibile, indiscutibile (e chiedo di usare la stessa cautela che io sto usando nello scrivere queste parole nel leggerle: è un tema difficile). La fotografia filantropica non nuoce, anzi favorisce involontariamente la crescita di quel mostro bonaccione e subdolo, bulimico e dai denti aguzzi, che prima morde e strappa feroce, e poi lecca con la sua lingua viscida e morbida le ferite da lui create. Quel carito-liberismo (una sfortunata parola per una sfortunata realtà) che si è fatto grande e grosso nel terzo mondo e in America e che adesso si fa strada senza ostacoli tra gli irrequieti e guardinghi cittadini, cittadini comuni, dell’Europa post-socialdemocratica. E che, ormai, non solo si alimenta della carità del privato ma anche, brutta bestia, di quella del pubblico.
Ad Ancona ho visto recentemente la nota mostra di fotografia filantropica di Dario Mitidieri, “Lost Family Portraits”, gestita dalla M&C Saatchi London per conto della SAFOD, l’istituzione di carità della Chiesa Cattolica in UK. Le immagini, protagoniste famiglie siriane rifugiate nella valle della Beekaa in Libano, sono molto belle e toccanti. Naturali ed intense. Frutto ben coltivato, e perciò, giustamente di successo, di una originale idea che non ha bisogno di didascalie. Anche senza info percepiamo che ogni immagine è l’immagine di una fuga e di un’assenza, di una perdita momentanea o definitiva, della dissoluzione non desiderata di una situazione. Ogni immagine è autonoma e la sua composizione è ricca di segni e di sensi. Di una sottile e ricercata complessità. Basta guardare: tutto parla, gli sguardi, le posizioni dei corpi, gli elementi accessori. Anche senza info percepiamo, però, con una sintassi chiara e concisa, strettamente fotografica, che ogni immagine configura un insieme più ampio, che si tratta di una situazione collettiva di precarietà, di dolore e di speranza; di una situazione che va oltre l’individualità delle persone fotografate. Di una situazione di dipendenza ed inermità. E’, sì, fotografia filantropica ma, anche, soprattutto fotografia. Meno male. Certo, non ha la freschezza e la potenza informativa della straordinaria serie degli anni ’90, “Bambini di Bombay”, ma le cose cambiano.
Perché ho scritto dei rischi politici della fotografia filantropica proprio in coincidenza con questa mostra per niente emblematica del fenomeno? Non lo so. E’ andata così.
Paco Domene