Mentre la piena globalizzazione avrebbe dovuto, secondo i lungimiranti, unificare i mercati, favorire lo spirito comune e diffondere la consapevolezza di come le culture siano soltanto un insieme di relativi, ecco che la realtà sprofonda, invece, in direzione opposta e contraria.
Mi ha molto colpito il minuto di silenzio non rispettato dall’Arabia Saudita durante il recente incontro di calcio, valido per le qualificazioni mondiali, con l’Australia. Prima del fischio di inizio, l’arbitro ha fatto osservare il classico raccoglimento in memoria delle vittime dell’attentato terroristico di Londra e i calciatori sauditi, pur preventivamente avvisati di questa decisione, lo hanno ignorato continuando a sgranchirsi le gambe e le braccia prima della partita. Quelli in panchina non si sono nemmeno alzati, trascurando platealmente l’esempio del pubblico sugli spalti. “Non è la nostra cultura, non conosciamo queste usanze” avrebbero risposto i sauditi alle rimostranze indignate del fine gara e degli inevitabili rimbalzi sui media di tutto il mondo. Il classico rituale del minuto di silenzio, in una manifestazione sportiva di spicco, non è dunque “un classico” per i sauditi che commemorano i morti in altro modo, magari attraverso la preghiera collettiva e in luogo meno profano da quello rappresentato da un comune campo di calcio. Così nemmeno lo sport, simbolo e sentimento di appartenenza e di riconciliazione universale, è riuscito nel miracolo dell’integrazione, soccombendo, almeno in questo caso, alla dittatura della cultura radicale. E, naturalmente, parliamo di uomini privilegiati, professionisti del pallone, agiati e giramondo e non di islamisti estremizzati e fanatici. Parliamo appunto di benestanti cosiddetti moderati, secondo quella definizione ormai invalsa nell’uso mediatico quotidiano, che venera e si prostra davanti al politicamente corretto. Di molto moderato, anzi fin troppo moderato, c’è stato poi anche il comportamento dell’arbitro che, non sapendo come reagire all’imbarazzo generale, magari estraendo un cartellino giallo di ammonizione all’intera squadra araba, riserve comprese, ha glissato salomonicamente all’insegna di un falso fair-play.
Ma quello che mi ha colpito maggiormente sono stati i commenti sui social dei giorni a seguire dove i soliti professionisti delle distinzioni sottili non hanno trascurato di evidenziare come i minuti di silenzio non vengano mai dedicati alle vittime mussulmane del terrorismo, ma soltanto a quelle occidentali, così sottolineando l’assenza di equità che caratterizza proprio noi occidentali, pionieri di violenze ed esportatori di guerre sanguinarie nell’intero mondo.
Io non mi dissocio da queste considerazioni, anzi penso che siano doverose per ricordare quanto il reale sia articolato e complesso, tuttavia credo che, in questo caso, la puntualizzazione, più che altro polemica, comporti il rischio di stornare l’attenzione dal fatto in sé, spogliando il minuto di silenzio del suo valore commemorativo e simbolico, del rispetto dovuto alle vittime, dell’esempio che può e deve rappresentare agli occhi del mondo intero, Arabia saudita compresa, pur se di cultura e rituali diversi.
Io penso che, almeno sul palcoscenico del calcio, ogni tanto semplificare sarebbe indicato. E quando dei presunti sportivi si consegnano alla cronaca per un fatto, per lo meno iscrivibile al registro deplorevole della maleducazione, bisognerebbe affermare senza indugi o perifrasi che le cose stanno semplicemente in questi termini e prenderne atto. Chiamando le cose con i loro nomi, usando le parole della fermezza autorevole, smettendola di diluire i fatti nel labirinto dei discorsi che finiscono sempre altrove, forse, qualche passo in avanti sarebbe possibile.
Pierangelo Scala