Sconcerto. Quando la vera colpevole è la donna

La sentenza di Torino sul caso di Lucia Regna. Non in nostro nome. Intervento della Casa delle Donne di Ivrea.

Con un capolavoro di sottocultura patriarcale la terza sezione penale del Tribunale di Torino (presidente Paolo Gallo, Elena Rocci e Giulia Maccari, giudici a latere) ha condannato ad un anno di reclusione un uomo per aver devastato il volto della moglie durante un pestaggio di sette minuti.

LUI, massacra e prende a calci più volte il viso della moglie, tanto da sfigurarla.
LEI, finisce all’ospedale. Tre mesi di ricovero, ricostruzione maxillofacciale con 21 placche di titanio. Perde anche l’uso di un occhio.
Tribunale di Torino, giudice Paolo Gallo: la condanna è di 1 anno e 6 mesi con la condizionale. Appena il minimo e, tra le motivazioni della sentenza si legge che l’imputato si sentiva vittima di un torto perché (la vittima) aveva sfaldato un matrimonio ventennale allietato dalla nascita di due figli.
Uno sfogo ricondotto nelle logica delle relazioni umane e un sentimento molto umano comprensibile per chiunque

È possibile?
Colpisce il linguaggio, l’uso di termini da Grand’Hotel che nascondono una cultura non solo maschilista, ma piuttosto bassa, assieme a un concetto della donna superato negli stessi codici.
Colpisce la palese vittimizzazione secondaria, dove la vittima non è solo ignorata, ma diventa la colpevole, la sola causa della violenza subita uno sfogo comprensibile.
Sono anche gli stereotipi di genere a riecheggiare nelle stesse parole della sentenza. Alle bambine si insegna ad essere mansuete e remissive e la determinazione nell’aver voluto separarsi, rende accettabile la reazione violenta e giustifica la mite condanna.
Un messaggio subliminale rivolto alle donne, che sottrarsi a un matrimonio quotidianamente condito da violenze psicologiche di ogni tipo, non è opportuno mai, figli o non figli.
Ed è la volontà, ancora una volta la determinazione della donna, le sue scelte a essere messe in discussione.
La brutalità della vicenda e un giudizio tanto di parte, ha fatto sì che la sentenza venisse impugnata dalla Procura.
Ma restano le domande legate non solo al caso singolo, ma alla realtà delle cose.

Alla Casa delle donne, allo sportello antiviolenza si presentano donne non più giovanissime con alle spalle soprusi piccoli e grandi, sopportati prima per i figli, poi per inerzia.
Soprattutto perché senza lavoro e del tutto dipendenti.
Sono storie quasi tutte uguali a quella di Lucia Regna.
Viene chiesto di non lavorare per seguire i bambini con più attenzione e la casa, il loro spazio incondizionato.
E’ il presupposto per iniziare il controllo, l’isolamento dal mondo esterno, il distacco dalle amiche e inconsciamente da se stesse, mentre le mura domestiche si fanno sempre più soffocanti.
Controllo e possesso che passano attraverso la dipendenza economica, all’annientamento. Meno cura della persona perché fanno pesare i soldi del parrucchiere o dei vestiti.
Non si capisce come, ma s’ingrassa, per cui alle rimostranze di inettitudine casalinga viene rinfacciata la poca avvenenza.
Il sesso diventa un dovere quando non uno stupro.
Resiste il vecchio detto, la piasa, la tasa, la resta a casa. E spesso ci chiediamo perché vengono allo sportello.
Per raccontare, per dare sfogo a tutto quello che hanno dentro e sofferto, non avendo più nessuno cui rivolgersi.
Sanno di non avere prospettive, solo una fantasia di ribellione, e noi le aiutiamo se vogliono, con il sostegno professionale di una counselor che dedica l’attenzione sul vissuto della persona, il qui e adesso della situazione, le accompagna ad immaginare le possibili strategie di difesa, a sviluppare il recupero di risorse spente.
Un incontro amico, non giudicante.
Non è molto, ma praticabile, forse una speranza.

Resta nel contesto più vasto il messaggio di Lucia Regna e dei suoi figli, denunciare tutte le forme di violenza perché solo così, insieme, le donne possono essere libere.
E noi Casa delle donne, con loro.

Casa delle Donne – Ivrea