Fari accesi sul naufragio del super veliero dei Vip, mentre non fanno più notizia i tanti naufragi degli ultimi del mondo

Le pagine di giornali e media in questi ultimi giorni di agosto sono a senso unico focalizzate sul tragico naufragio dello yacht inglese avvenuto davanti alle coste della Sicilia, nel quale purtroppo si sono perse delle vite, preziose come ogni altra.

Tra i sei dispersi (oltre al morto accertato) anche il tycoon (chiamarlo magnate dell’indusrria non sarebbe meglio?) Mike Lynch (proprietario dell’imbarcazione), la figlia e il presidente di Morgan Stanley, Jonathan Bloomer. L’attenzione dei media si è subito concentrata su due elementi di questa tragedia: la frequenza delle trombe d’aria in mare e le cause remote da ricercarsi nel riscaldamento del Mediterraneo dovuto ai cambiamenti climatici da un lato e, dall’altro, il fatto che fra i dispersi vi siano personaggi importanti dell’alta finanza.

Si parlerà ancora a lungo di questa vicenda. So che mi avventuro su un terreno impervio, ma le mie prime reazioni dopo la notizia sono state di questo tenore: quante altre imbarcazioni molto meno solide e con passeggeri meno illustri, sebbene più numerosi, di quelli sulla “Bayesan” sono state spazzate via, con il loro carico di vite umane (uomini, donne e bambini) dalla furia del mare nelle scorse settimane, mesi, anni, in quel tratto di mare senza che ricevessero un centesimo dell’attenzione ricevuta da questo caso drammatico?

Diciamolo francamente: tutti sappiamo, o comunque non possiamo non sapere, che il Mediterraneo è una enorme cimitero in cui quotidianamente annegano migliaia di persone, di esseri umani che, non per diletto ma per bisogno, cercano di attraversarlo per venire in Europa e che non sono degni della nostra attenzione e neppure, spesso, di essere nominati.

Ci siamo abituati alla “normalità” di quelle morti perché le vite umane non sono tutte uguali, nonostante i nostri altisonanti proclami di civiltà dei diritti umani di cui pretendiamo, noi europei, di essere la culla. Soprattutto si sono abituati i media, l’informazione, che così tradisce la sua funzione democratica non meno della stampa prezzolata dei regimi autoritari e illiberali.

La propaganda politica ha reso ordinaria amministrazione le morti in mare dei migranti

Ammettiamolo: anche grazie alla propaganda politica e alle leggi restrittive del diritto all’asilo e all’accoglienza dei migranti della destra (ma, purtroppo, anche governi di centrosinistra negli anni passati, basti pensare che il primo accordo con la Libia per la gestione dei migranti porta la firma di un ministro degli Interni del Pd, Marco Minniti), dei migranti non importa niente a nessuno.

Anzi, il Governo celebra con squilli di tromba, la riduzione del numero degli arrivi: nel primo semestre di quest’anno. Non sono compresi, ovviamente, fra questi quelli che sulle coste italiane non sono arrivati perché affogati in mare o “trattenuti” nei lager libici o tunisini. Evviva, dunque, un problema in meno. Pazienza per gli annegati: non hanno nomi altisonanti, anzi non hanno nomi affatto. Nessuno che si domandi però a cosa sia dovuto il mancato arrivo: naufragi, detenzione e impedimenti a lasciare il proprio paese (in violazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che prevede questo diritto fra i suoi capisaldi)? Certamente non perché siano migliorate le condizioni che li spingevano a fuggire o lasciare il proprio paese.

Suicidi in carcere: il tasso più alto è tra gli stranieri

Comunque, “meno arrivi” uguale “meno problemi”. Come li trattiamo, infatti, quelli che ce la fanno? Intanto, 17.987 li mettiamo in carcere: tanti erano i detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane al 15 giugno 2023. Il 31,3% del totale della popolazione detenuta. Erano oltre il 37% quindici anni fa. In questo numero sono compresi anche i detenuti stranieri che si sono suicidati: dei 70 suicidi registrati in carcere nel 2023, 42 erano stranieri, che dunque registrano un tasso suicidale ben più alto degli italiani.

Vabbè, ma ci serve mano d’opera disposta a fare lavori che gli italiani rifiutano. Quindi, verrebbe da dire, che dovremmo trattare con i guanti queste persone così necessarie alla nostra economia o al nostro sistema di welfare. E invece no: siccome sono migranti, quindi persone di seconda categoria, trovano più facilmente la morte sul lavoro.

Sul lavoro 65,3 morti per milione sono stranieri contro il 31,1 degli italiani

Infatti, nel 2023 su 1.041 morti sul lavoro, ben 204 erano immigrati stranieri, il 19,6% del totale. L’incidenza è stata di 65,3 morti ogni milione di occupati, contro 31,1 per gli italiani. Più del doppio. Perché? Intanto perché i lavoratori immigrati si concentrano nei settori in cui il rischio d’incidenti è più elevato: le costruzioni (150 vittime nel 2023), trasporti e magazzinaggio (109), attività manifatturiere (101). In Italia sono quasi assenti dal lavoro pubblico e raramente accedono a lavori meno esposti a rischi infortunistici. Cioè quei lavori che gli italiani vogliono continuare a svolgere.

In agricoltura dettano legge i caporali

A loro invece toccano le occupazioni pesanti, precarie, pericolose, poco pagate, penalizzate socialmente. Per esempio nei campi, sotto il sole cocente, per pochi euro al giorno, in condizioni di vita e di lavoro che assomigliano alla schiavitù e gestiti da caporali (anche nelle zone più sviluppate del paese). Infatti, nei settori edile e agricolo si riscontrano i maggiori tassi di irregolarità, a causa della presenza di lavoro nero, ma anche del ricorso a diverse forme di lavoro “grigio”.

E allora guardando le cose sotto questo punto di vista, occorre un’ultima riflessione. Il naufragio della “Bayesan” potrebbe erroneamente far pensare che (almeno) il cambiamento climatico e il riscaldamento globale non guardano in faccia a nessuno, non fanno differenza fra ricchi e poveri. Ma purtroppo anche questo è un abbaglio. In realtà i ricchissimi (quell’1% della popolazione mondiale che detiene oltre il 50% della ricchezza) hanno maggiori possibilità di adattamento (resilienza) ai cambiamenti climatici, se non altro per la maggiore disponibilità economica. Del resto si sa, il ricco è per sua vocazione anche egoista e, dunque, perché dovrebbe preoccuparsi del riscaldamento globale che pure affliggerà i suoi figli e nipoti, e in certa misura lui stesso?

Verosimilmente anche le generazioni che gli succederanno nella linea familiare avranno sufficienti disponibilità di soldi per “vivere bene” in un mondo più caldo. Invece, i più poveri fra i poveri non hanno questa possibilità. Infatti, secondo l’UNHCR, sono ben 17,2 milioni le persone costrette a fuggire dal proprio paese a causa fenomeni distruttivi e di rischi meteorologici nell’anno 2023. In questo caso sono persone il cui status non è neppure formalmente riconosciuto, e dunque tutelato, dalle convenzioni di diritto internazionale (come quella sui rifugiati di Ginevra del 1951). La crisi climatica è, dunque, anche classista, o almeno non sfugge alla regola generale di un sistema di disuguaglianze globali che il modello economico capitalista globale ha assurto a regola naturale.

Così giusto per dire … e per riflettere …

Franco Giorgio