Risparmiare per i ladri di futuro
Il senso del film sta tutto nel constatare come l’odierna realtà differisca amaramente dagli ideali di vita semplice e onesta condotti da una persona comune. Antonio è il classico lavoratore di provincia, l’operaio dedito allo scrupolo del lavoro ben fatto, il risparmiatore formichina che impiega tempo libero e sudata fatica per la previdenza di un futuro su cui altri allungheranno purtroppo le mani.
Storie di operai, gente comune, alloggi di periferia in condomini anonimi, arredamenti ordinari che soffocano pavimenti anni 50, sopravvissuti, nella loro originaria bellezza, alla tentazione costosa della ristrutturazione modernizzante e spesso di cattivo gusto. Tutto corrisponde alla psicologia semplice del personaggio interpretato da un Albanese sempre nella parte, un romanticone di periferia, modesto nelle abitudini e negli svaghi, un uomo che gioca a bocce, assiste la madre anziana, usa una vecchia Volvo più che altro plausibile come reperto d’epoca. Un uomo che, parallelamente, mantiene rapporti civili con la ex moglie e adora, da buon padre, l’unica sua figlia, adesso in procinto di sposarsi.
Confesso che diffidavo di questo film, avendo inconsciamente relegato Albanese al ruolo di uno di quei comici all’italiana con cui non ho mai familiarizzato e, invece, sono contento di essermi ricreduto, vincendo il peso di un pregiudizio infondato. Identificarsi nella vicenda, dell’operaio sprovveduto ma impeccabile, non è difficile, essendo lui, come i più, un rappresentante di quel popolo che, vivendo senza procurare danni al prossimo, non può concepire la malafede altrui, il suo modus operandi che sa di circonvenzione cinica e di furto legalizzato. Quando Antonio si reca in banca per prelevare quanto necessita per organizzare il matrimonio della figlia, si accorge che i suoi risparmi, le obbligazioni, di cui si riteneva titolare, di fatto sono azioni, da lui sottoscritte in contratti che gli sono stati presentati come vantaggiosi attraverso un gomitolo di ingannevoli lusinghe.
“La sua firma la metta pure qui e qui bastano le sue iniziali!” indica, gongolando, l’esperto e subdolo dirigente e l’operaio firma come chiunque farebbe in banca, ieri come oggi, davanti a documenti fascicolo che soltanto a leggerne una pagina occorrerebbero generosi quarti d’ora.
Firmare a occhi chiusi perché la banca, si sa, nel piccolo mondo di provincia, è come un confessionale. Ad essa si affidano i soldi risparmiati, quelli che profumano di fatica, di lavoro meritorio, di rinunce e sacrifici, soldi sacrosanti e guadagnati e lei, la banca, se ne prende cura, li amministra con te nell’unico rapporto che dovrebbe essere possibile e cioè quello della fiducia reciproca. Ma non è così e quando il crac bancario si palesa, anche amplificato dai giornali, insieme allo schock di essere stato raggirato, per Antonio e per quelli come lui l’investimento di un’intera vita crolla, devastando l’animo e stroncando la speranza di un futuro ancora possibile.
E qui il film cambia registro, l’organizzazione del quotidiano va in frantumi, perdono senso i diversivi del gioco delle bocce, vanno in crisi i rapporti interpersonali, quello con l’amante di Antonio alla quale lui, nel difficile momento in corso, chiederebbe qualcosa in più della semplice consolazione offerta dal sesso, e poi va in crisi anche il rapporto con gli amici. Quando uno di loro gli dice che di quello che è successo è anche colpa sua, la frustrazione di Antonio sale alle stelle, la voce del panico e della rabbia scandisce la frase: “Ecco, io ho avuto fiducia nel direttore della banca, lui si è comportato da delinquente e la colpa è pure mia”. Già, in un mondo capovolto la giustizia non parteggia per i truffati ma per i truffatori evidentemente perché di questa parola si è smarrito il significato.
E di questa ingiustizia, di questa diramazione di veleni, così nel film come nella realtà da esso veicolata, innumerevoli sono state le vittime, vittime colpevoli di non essere state diffidenti, di aver accordato fiducia, una fiducia su cui la banca, ente fiduciario per eccellenza, ha speculato vergognosamente. Il film se ne va verso l’epilogo, una storia di drammi che sfociano in tragedie, un osservatorio sulla vita che diventa un orizzonte di tenebre, un serraglio di comportamenti miserrimi.
E per tutti quelli che non hanno retto, per tutti quelli che l’hanno fatta finita, il termine di “suicidio” è la parola più invereconda di tutte, quella più inutile e abusata nel racconto delle false verità.
Pierangelo Scala