Il libro di Andrea Colamedici e Maura Gancitano “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo” presentato alla Grande Invasione 2023
Quali strade imbocchi il desiderio di leggere per spingerti all’acquisto di un libro piuttosto che di un altro si spiega con una molteplicità di fattori, alcuni più netti e incisivi altri più sfumati e subliminali: si va dal consiglio accalorato di un amico, alla pubblicità accattivante di un testo, al potere di attrazione legato alla fama di uno scrittore, all’attualità imprescindibile dell’argomento trattato, alla buona impressione ricevuta in occasione di una presentazione ecc.
Ecco, complice “La grande invasione”, con il suo nutrito programma di incontri, io mi sono lasciato coinvolgere dai due autori Andrea e Maura, per l’eloquenza con cui hanno valorizzato il loro libro, centrato sul tema del lavoro e delle sue insidie in un periodo di profonda trasformazione sociale e culturale.
Il testo mette nel mirino alcuni luoghi comuni emergenti rovesciandoli diametralmente e si interroga sul concetto di lavoro come valore o disvalore in sé, sull’iperlavoro determinato da ritmi produttivi sempre più coercitivi e frenetici, sull’individualismo che ne consegue, spronato ed esaltato da una continua competizione, sulla meritocrazia come metodo di premiazione del cosiddetto lavoro ben fatto che poi, data l’ansia da prestazione indotta, proprio ben fatto non è mai. Quindi, secondo gli ammonimenti degli autori: “Il lavoro non rende liberi-Chi non lavora fa l’amore- Se ti impegni non ce la fai-Fai un lavoro che ami e lavorerai ogni giorno della tua vita”. In sostanza si palesa una critica all’ideologia del lavoro che si sta cristallizzando nella società e che riflette, a parer mio, il modello capitalista americano con i suoi slogan e le sue ricette del successo che noi assorbiamo inconsciamente o anche, consapevolmente, sottoscriviamo. Un paradigma che mette al centro l’uso della volontà di farcela, quello della rabbia come forza motrice, della lotta e dell’impegno come elementi di propulsione per sfondare nella vita e acquisire i fasti e gli onori del successo, poi certificato dalla ricchezza e dal prestigio raggiunti. Insomma una società sempre più velocizzata e affannata, metaforicamente rappresentata da milioni di “uomini spermatozoi” in concorso per fecondare un uovo accessibile solo a uno di essi. E a tutti gli altri uomini, che non ce la fanno, cosa succede?. Beh, rimane la possibilità di riprovarci, la speranza di centrare l’obiettivo in futuro a patto che si raddoppino gli sforzi e si curi meglio il potere della mentalità vincente. In fondo siamo nel mondo tossico dei tentativi ad ogni costo, una forma di ludopatia del lavoro basata sulla perseveranza finché un giorno o l’altro, finalmente, non si riuscirà a stringere tra le dita il biglietto vincente. Naturalmente, in questa apologia della gara, della sfida, del rialzo della posta, della pratica tambureggiante come metodo esistenziale, non solo uno su mille ce la fa (magari) ma neanche uno su diecimila.
In questa nostra società tossica, le dinamiche produttive non investono soltanto la vita lavorativa, ma anche quel poco che resta del tempo libero che si percepisce come sprecato se dedicato all’ozio, alla tranquillità, al riposo. Ne consegue che i contagiati dal dinamismo pervasivo si sentano frustrati e annoiati se devono star fermi senza mete da raggiungere, vere o fasulle che queste siano. Gli indemoniati dell’azione e del lavoro estremizzato si sono costruiti la loro gabbia, abdicando al tempo necessario al pensiero riflessivo e formativo che il lavoro dovrebbe garantire insieme alle esigenze basiche di tipo economico-materiale. E qui, naturalmente siamo al problema dei problemi, quello per cui dai valori democratici come l’assistenza, la pensione, la cassa integrazione, la protezione delle categorie deboli, la scala mobile eccetera, siamo passati al far west del lavoro come esaltazione del privato a svantaggio del pubblico. Naturalmente la coppia di autori mette in guardia verso questo modello iperliberista che, pur imponendosi dappertutto, crea anche dei danni, come la disoccupazione dei più e l’alienazione degli occupati e anche, dati alla mano, una certa tendenza controproducente.
A questo proposito, mi viene liberamente di pensare che la nostra società sia ampiamente metaforizzata e paragonabile all’involuzione compiuta dai programmi televisivi. Oggi abbiamo schermi panoramici, riprese in 4k, decine di canali a disposizione e selezionabili a piacere, ma quasi nessun programma di spessore reale. Se vuoi vederti un film di qualità devi fare l’abbonamento a pagamento di qualche tv privata. In questo mondo dunque, ogni uomo diventa sempre più mercificato e ogni sogno ha valore solo se prospetta paradisi e miraggi ad alto costo economico. Il valore supremo sta nel denaro come misura di ogni cosa, compresa la qualità del tuo vivere, di cui il lavoro, anzi il super lavoro, è diventato parte integrante. Da qui l’idea degli autori che una nuova prospettiva, una domanda di senso esistenziale, possa nascere solo da un rapporto di diserzione con l’ attività lavorativa così concepita. Non si tratta soltanto di modificare i sistemi educativi e culturali, dicono gli autori, occorre anche coltivare la relazione umana e politica, uniche vie d’azione in grado di organizzare un tessuto sociale più consono e strutturato. Forse, aggiungo personalmente, si potrebbe anche indagare su quella platea di persone tra i 15 anni e i 34 anni che non studia e nemmeno lavora e che quindi ha già disertato ancora prima di cominciare a lavorare. Forse queste persone detengono il segreto che potrebbe liberare tutti dall’incantesimo del lavoro che promette e non mantiene.
Per quel che mi riguarda, per tutta la durata della lettura, ho sentito aleggiare in me sempre la stessa domanda e cioè: “Come si fa a disertare il lavoro e a dedicare il tempo libero ai pensieri illuminanti se non hai di che apparecchiare la tavola?” In parte, a rispondere sono gli stessi autori nelle conclusioni finali del libro dove descrivono loro stessi come lavoratori che hanno fatto di tutto, raggiungendo infine la condizione di chi il lavoro lo offre invece di chi lo cerca.
Onestamente gli autori ammettono e riconoscono i loro privilegi e anche un certo livello di fortuna che ha accompagnato il loro percorso. Un po’ come dire: “Tutto quello che abbiamo detto è vero, ma non si può dimenticare che il lavoro resta comunque il mezzo principale di sostentamento con cui fare i conti.”
Quindi, disertare il lavoro va bene soprattutto nell’idea di non cedere al rischio che il superlavoro nasconde e cioè quello che ci umilia nella nostra facoltà di pensare.
Sono considerazioni ottime, che dissolvono l’ombra di perplessità provata durante la lettura e che gli autori, secondo me, avrebbero dovuto inserire, più opportunamente, non nel capitolo a conclusione del libro, ma all’inizio dello stesso come anticipazione e premessa.
Pierangelo Scala