E non sapete cosa vi siete persi…
Grazie all’intercessione del candidato di destra-destra Cantoni, il 4 maggio all’interno dell’oratorio San Giuseppe si esibisce Povia, cantante vincitore dell’edizione 2006 del festival di Sanremo.
Il concerto ha le potenzialità per risultare l’evento più grottesco che questa città abbia mai visto ed è pure gratuito, e come amante del grottesco e del gratuito l’occasione mi risulta ghiotta, così decido di andare. Non ero preparato a quello che mi sarei trovato davanti…
Arrivo con un quarto d’ora d’anticipo, preoccupato di non trovare posto per assistere a cotanta magnificenza, ma i miei timori risultano infondati. Il pubblico supera di poco la quarantina di persone, quasi tutte parte delle varie liste a sostegno del candidato più parenti e amici, evidentemente la città non sa apprezzare gli artisti di livello.
La poca affluenza non fa buona impressione, così gli organizzatori chiedono al pubblico di compattarsi nelle prime file, immagino per risultare più numerosi nelle foto e nei video.
Nonostante l’inizio un po’ demoralizzante, il giovane candidato si improvvisa presentatore per riscaldare gli animi, senza risparmiarsi una stoccata al sindaco uscente, che a suo dire non sarebbe stato in grado di portare il concertone allo Zac. La frecciatina sortisce l’effetto voluto, il pubblico inizia a essere frizzantino e pronto per dare il benvenuto alla star, che finalmente si palesa sul palco.
Vale la pena spendere qualche riga per parlare di lui, il famigerato Povia: il personaggio ha ormai oggi 50 anni, ma nonostante l’età esibisce ancora una folta chioma di capelli ben oltre le spalle e un enorme sorriso a 32 denti. Ma ciò che Povia ha di veramente grosso è un’altra cosa. L’enorme ego del personaggio infatti trasuda dalle pareti e viene difficilmente contenuto dal piccolo oratorio dove si trova a esibirsi. Il concerto che seguirà sarà infatti infarcito di continui aneddoti autoreferenziali, come i lavori precedenti di Povia, e soprattutto di continui rimandi a Sanremo, spezzoni video del cantante a Sanremo, la vittoria a Sanremo, gli anni d’oro di Sanremo, il rifiuto ricevuto alle più recenti edizioni di Sanremo. L’ho già detto che è stato a Sanremo, sì?
Il concerto si apre con il grande successo di Povia, I bambini fanno “ooh”, canzonetta melensa ma vendibile che fa leva sulla tenerezza facilona. Il tema della famiglia (tradizionale, ovvio) dominerà tutta la prima parte dell’esibizione, con canzoni sulle figlie, sulla madre, sul padre, sui nonni, sull’essere papà. La mia fame di grottesco viene stuzzicata ma non soddisfatta, so che il meglio deve ancora venire.
La metà del concerto è segnata da Vorrei avere il becco, erroneamente ricordata anche come La canzone del piccione, di minor successo rispetto a I bambini fanno “ooh”, ma brano che valse al cantante la più volte citata vittoria al festival.
Da qui in poi la serata si scalda e arrivano i pezzi che stavo aspettando. Si parte col tema dell’immigrazione, con la premessa che Povia non ha nulla contro gli immigrati, ma solo contro il business dell’immigrazione. Prima della canzone però, il cantante riporta alcuni discorsi di personaggi di un certo calibro, nomi che sinceramente non mi aspettavo di sentire a una serata elettorale dalla destra: inizia con uno spezzone del professor Barbero, che parla del crollo dell’impero romano dovuto alla cattiva gestione delle migrazioni e le conseguenti invasioni barbariche, si continua con nientemeno che Karl Marx, che racconta i contrasti tra la classe operaia inglese e quella irlandese, per finire in bellezza con Thomas Sankara, che arringa la folla incitando il Burkina Faso a rifiutare la dipendenza dagli aiuti occidentali in favore di una maggiore autosufficienza del paese. Da sinistro sinistroide quale sono, ammetto che questi tre nomi mi destabilizzano: per un attimo mi assale il terrore di dover essere d’accordo con Povia e che la canzone seguente parlerà dell’internazionalismo delle lotte e dell’unico confine realmente esistente, quello tra sfruttati e sfruttatori. Fortunatamente parte Immigrazìa, brano a tema sostituzione etnica che racconta di come l’élite globale voglia sostituire i bianchi con gli africani e Gesù con Maometto, tiro un sospiro di sollievo e torno padrone di me stesso.
Si continua alla grande con La terminologia dei bimbiminkia, vocabolo che non sentivo dal lontano 2010 quando Facebook non era ancora stato colonizzato dai boomer. Al di là del tema della canzone, riassumibile con “qualsiasi siano le tue opinioni, la gente su internet ti categorizzerà sempre, non badarci e combatti per ciò in cui credi”, qui raggiungiamo uno dei punti più alti della serata, con i candidati della destra eporediese che agitano le mani al cielo cantando in coro un brano così oggettivamente imbarazzante da poter essere scambiato per una parodia. Un’immagine che riempie gli occhi e che spero di portare con me per sempre.
E finalmente arriva la canzone che personalmente aspettavo con ansia da tutta la serata, dedicata con ogni probabilità al candidato, concorrente ma vicino, del Popolo della famiglia Carlo Bravi. È il momento della famigerata Luca era gay. Come introduzione, uno spezzone di Paolo Bonolis, che da buon maschio etero cisgender e privilegiato spiega alla comunità LGBTQIA+ che non deve offendersi e che la canzone non è affatto omofoba. Per chi non la conoscesse, il tema attinge a piene mani nell’arcaica e più che superata teoria Freudiana sull’omosessualità, riassumibile con “Luca era gay perché aveva una famiglia disfunzionale, ma poi scavando nel suo passato ne ha capito i motivi e ha conosciuto la donna giusta e ora è tornato normale”.
Il pubblico ormai e in visibilio e la serata volge al termine, chiudendosi con il bis de I bambini fanno “ooh”. La mia fame di grottesco è stata soddisfatta fin quasi all’indigestione, e finalmente esco dalla sala.
Tutt’ora sono sinceramente disperato, perché so che non sarò mai in grado di trasmettere la magnificenza dell’orrore al quale ho assistito. Quello che avete letto fino adesso non è che un riassunto di una serata intrisa in ogni istante di continui riferimenti al meglio del peggio della narrazione destrorsa: nazionalismo, complottismo, lotta al “gender”, omofobia, antivaccinismo, sostituzione etnica, cattolicesimo tradizionalista radicale e nostalgia della lira.
Ciliegina sulla torta, il titolo dell’evento è “La festa del futuro”. Peccato che l’età media del pubblico sfiori i 50 anni e che la star della serata sia un cantante in decadenza, disperatamente attaccato a un passato di gloria ormai svanita e vecchio non solo anagraficamente, ma soprattutto nelle idee, nei temi, nella musica, nei termini. Tutto questo con l’aiuto di cartelli motivazionali, vecchi video sgranati ed effetti visivi degni di PowerPoint.
Un’esperienza al limite dell’allucinogeno, che come ogni viaggio lisergico degno di questo nome, dopo avermi trasportato in una dimensione alternativa a me incomprensibile, mi rigetta nel mondo reale con un’enorme scarica di adrenalina e il bisogno febbrile di trovare qualcuno a cui cercare di raccontare l’esperienza. Fortunatamente il Napoli ha vinto lo scudetto quella sera, così mi posso imbucare ai festeggiamenti dei tifosi a Porta Vercelli e sfogare l’entusiasmo.
Una serata tragicomica, che risulterebbe ancora più divertente se non fosse per un particolare: la parte politica presente a quella serata quelle cose le pensa davvero. Ed è la stessa parte politica che ancora oggi insiste con la narrazione di popolo anti-sistema, contrario al pensiero unico e ai poteri forti, nonostante ora governi l’Italia e che per 5 anni abbia governato anche la nostra città. Una parte politica che non si vergogna a presentare tra i suoi candidati fascisti conclamati come Enrico Marchiori, consigliere ex-Lega ex-ex-Casapound oggi nelle file di FdI, la cui unica dichiarazione nell’ultimo quinquennio è stata un’apologia alla Decima Mas, o come Igor Bosonin, ex-candidato sindaco per Casapound oggi in casa Lega, che raccoglierà tra gli altri i voti di Italexit e di tutta quella psicosi antiscientifica che il partito rappresenta.
Ecco, se penso a questo un po’ la voglia di ridere mi passa.
Lorenzo Zaccagnini