Il peso e la leggerezza della Storia (Naturale): Museo Civico di Storia Naturale “Giacomo Doria”; Genova, 30.3.2017
È successo che, trovandomi da solo da quelle parti, mi sia venuta voglia di entrare al Museo di Storia Naturale di Genova. Mi piacciono molto i musei di Storia Naturale. Ci permettono di tuffarci senza pericolo in un mare vorticoso. Un mare nel quale ci si misura lucidamente con le proprie zavorre ideologiche, ma anche con le leggerezze dell’animo; con il peso e la lievità del passato e del presente; con quello che siamo stati e quello che siamo e potremmo essere. Tutti quei minerali strappati al loro ambiente, tutte quelle piante essiccate o in vario modo conservate, tutti quegli animali, minuti od enormi, imbalsamati o impagliati, o mantenuti viscidi in variegati liquidi o infilzati su sottili aghi, ci parlano con delicata potenza di quello che l’Uomo è stato, è, e potrà essere. Ma anche della sua grandezza e della sua piccolezza. Delle sue glorie e delle sue miserie come artefice della Cultura e in qualche modo, presuntuoso e ingenuo, della Natura. Luminoso stordimento! Mentre si gira lenti, la mente lavora veloce: stordita da tanta biodiversità, la coscienza confronta e valuta, si districa nell’ordinata giungla della tassonomia, tra domini e regni, classi, ordini, famiglie, generi, specie… si commuove davanti alla profonda, strutturale bellezza delle forme, quelle infinite (infinite, infinite…) forme bellissime che mostrano i minerali, le piante, gli animali; quei colori funzionali, precisi e distinti che fanno tremare lo sguardo: ah, potremmo diventare pazzi se all’improvviso, da questa atmosfera di silenzio, da queste chiuse vetrine si levasse miracolosamente il rumore di tutti i versi, ululati, ruggiti, grugniti, ronzii, canti degli animali già estinti o ancora esistenti; gli scricchiolii o il rombo dei minerali nel loro sedimentarsi, trasformarsi, raffreddarsi; il sibilo del vento tra le grandi piante o il fruscio dell’erba… Sì. Si sta sempre bene in compagnia ma è da soli che si entra in contatto, persa la nozione del tempo, con le presenze vive degli inerti e muti abitanti dei Musei di Storia Naturale.
Il Museo di Storia Naturale di Genova appare al visitatore come un vecchio e datato museo. Il maestoso palazzone tardo-ottocentesco che lo ospita invecchia senza trucchi nè lifting, come lasciato alla sua sorte. Nessuno squisito guru dell’allestimento museale ha messo da anni, forse da secoli, le mani sugli spazi, sulle vetrine (ognuna della propria trapassata epoca e stile), sulle didascalie. Niente strumenti interattivi, info-digitale, realtà aumentata. Tranne qualche arredo anticipante il futuro sec. XX° (i sedili per riposarsi, le vetrine delle collezione mineralogiche, le didascalie della sala paleontologica) tutto sembra appartenere al XIX°, inclusi i grandi, soliti, teneri diorami. Ma a me sta bene così. Molto bene. Il contenente non sovrasta né enfatizza il contenuto. Il contenuto sta lì, possente ed autonomo, con la forza che nasce da se stesso, come un reperto sostenibilmente mantenuto. Le info sono scarse, ma significative e suggestive; l’assiepamento degli elementi giusto, in modo da mostrare la contiguità tra elementi uguali e tuttavia differenti (il gioco delle varianti), ma anche la contiguità spaziale tra specie diverse, la ricca dialettica della biodiversità.
Sono molte le cose che mi hanno colpito in questo Museo, in particolare le vetrine, molto ricche, dedicate al genere Scimmia e tra queste l’esemplare di macaca sinica; quella dedicata al genere Panthera e l’accattivante leopardo nebuloso; in quella dei ruminanti il piccolo traguli, un maschio di saiga e un bue muschiato; la vetrinetta dei pipistrelli e il pipistrello orecchione e la, diciamo fragile, vetrinetta dei fragili colibrì; nella sala paleontologica lo straordinario reperto di Elephas antiquus italicus e il non meno straordinario fossile di palma flabellaria mediterranea; ma devo evidenziare, anche, le due enormi, spettacolari spugne (nomen omen) poterion neptunis e poterion poseidonis, e segnalare gli esemplari di histrix cristata e licaone del Gambia; la collezione mineralogica stupisce per bellezza e varietà, a me hanno colpito in particolari gli argenti; la collezione di insetti è da perdersi. È da più di tre ore che sono qui e non ho visto nessun adulto. Da lontano sento il rumore di una scolaresca delle elementari, un’altra scolaresca anch’essa delle elementari mi ha appena superato. Rimarrei ancora qui ma devo prendere il treno.
“Alle prese con l’esperienza della Natura: un filosofo e una poetessa”: “Diario del Gran Paradiso” di Anacleto Verrecchia, Fogola Editore, Torino, 2012, e poesie di Mary Oliver, nella rete; in giro per il Piemonte e la Liguria, fine Marzo 2017.
È successo, sì, di nuovo è successo, come spesso in questa rubrica, che io cambi all’ultimo momento i testi. È l’immediatezza dell’esperienza che conta. Sono andato l’altro ieri al Museo di Storia Naturale di Genova. Leggevo nel frattempo “Diario del Gran Paradiso”, il resoconto pressoché giornaliero che il filosofo Anacleto Verrecchia fa dei suoi tre anni passati sui versanti valdostano e piemontese del Parco del Gran Paradiso negli anni ’50. Era un ventenne allora, ma pubblica il libro già anziano, nel 1997. In questi giorni bazzicavo anche nella poesia di Mary Oliver. Mary Oliver è sicuramente la poetessa più nota in America (ha vinto tutto, compresi il Pulitzer di Poesia e il National Book Award, le manca solo il Nobel) ma in Italia è quasi misconosciuta e i suoi libri sono introvabili. Come Whitman o Thoreau, Oliver ha vissuto per scelta sempre in mezzo alla Natura non urbana e con questo vissuto alimenta la sua poesia. Verrecchia e Oliver vivono, e descrivono nei loro testi, l’attenzione intensa verso gli animali, lo stupore che ciò crea, le riflessioni che genera, l’esperienza, quindi, immersiva nella Natura. Un’esperienza involvente che da significato alle loro vite: il comportamento degli animali è il catalizzatore del loro stesso comportamento, il lievito che fa fermentare e rendere viva la loro coscienza, ciò che da senso alla loro esperienza. In Verrecchia questa coscienza è di natura fiosofica e si alimenta di un forte scetticismo, un ateismo e un anticlericalismo militanti e il pensiero di Giordano Bruno, di Schopenhauer, di Nietzsche. In Oliver la coscienza è poetica. “La poesia non è una professione, è uno stile di vita. [una coscienza, appunto -ndr-] È un cesto vuoto; ci metti dentro la tua vita e ne tiri fuori qualcosa“, dichiara. Le loro vite e la loro letteratura accettano le contraddizioni e le sintesi tra Natura e Cultura. In Verrecchia in chiave pessimistica, ma non vittimistica né talebana. In Oliver in chiave ottimistica e piena di speranza.
Avrei voluto dedicare (ed è mia intenzione farlo) un articolo più ampio sia al Diario di Verrecchia che alla poesia di Oliver, ma l’incrocio tra la visita al Museo di Storia Naturale di Genova (e le riflessioni che l’attuale, complessa e variegata nuova coscienza ecologica stimola), e i suggerimenti che la lettura di Verrecchia e Oliver provocano, mi hanno obbligato (liberamente) ad accennare a loro oggi. Sono sicuro che la lettura di questi due testi aiuterà i lettori interessati (soprattutto se visitano un Museo di Storia Naturale).
Mary Oliver (Le oche selvatiche): Non devi essere buono./ Non devi camminare in ginocchio/ cento miglia nel deserto, facendo penitenza./ Devi solo lasciare che il delicato animale del tuo corpo/ ami ciò che ama./ Parlami della disperazione, la tua, e io di parlerò della mia./ Intanto il mondo va avanti./…/ Chiunque tu sia, non importa quanto solo,/ il mondo offre se stesso alla tua immaginazione,/ come le oche selvatiche ti chiama, aspro ed eccitante -/ annunciando ancora e ancora il tuo posto/ nella famiglia delle cose.
Paco Domene