Elementi per alimentare il dibattito attorno al progetto “progressista” partendo dalla serata di presentazione di “Il mestiere della Sinistra” allo ZAC e dall’articolo “L’ultimo miglio della politica a Ivrea“
“Senza il conflitto faccio fatica a capire come riempire la democrazia”. È questo uno dei primi argomenti toccati dal segretario della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, nel corso della serata di venerdì 28 ottobre allo ZAC d’Ivrea.
Che cos’è la Sinistra? Che cos’è il progressismo? Che opposizione è necessaria e possibile ora che le destre godono di un’ampia maggioranza in Parlamento?
Questi e altri argomenti hanno interessato il dibattito di venerdì scorso, di cui riferisce più dettagliatamente l’articolo “L’ultimo miglio della politica a Ivrea”.
Ma proprio dall’articolo di Macchieraldo e dalla frase di Airaudo si vuole qui tentare di dare un piccolo contributo alla riflessione sull’area progressista, perché, confesso, se da un lato sono uscito dalla serata con la convinzione che la scelta progressista sia oggi certamente più praticabile e possibile rispetto all’idea di “ricostruzione della Sinistra”, d’altro canto non sono riuscito a capire chi debba far parte di questa alleanza.
Per non discutere attorno a sigle i relatori della serata hanno saggiamente scelto di partire da temi e contenuti attorno a cui costruire un campo progressista, indicandone uno come predominante: il lavoro. Ognuno ha portato un valido contributo all’argomento. «Il mondo del lavoro ha vissuto un profondo senso di solitudine. La percezione di tradimento della sinistra da parte dei lavoratori è alta e si è consolidata nel tempo» ha detto Airaudo, riprendendo poi il ragionamento di Mario Tronti nella parte conclusiva al libro di Fassina: «Quello che manca è un sogno che motivi. Riprendiamo le battaglie per la riduzione dell’orario, come fu quella dello scorso secolo per le otto ore, ma rappresentiamo anche le nuove forme di lavoro, la frammentazione dei precari. La liberazione del tempo di lavoro può essere uno di questi sogni».
Sempre sul tema del lavoro si è così espressa Chiara Appendino: «oggi è necessario un reale fronte progressista capace di fare politiche di riforme e rinnovamento partendo dal tema del lavoro. Il lavoro sta cambiando e dobbiamo scegliere se vivere questo cambiamento tentando di rallentarlo o cavalcarlo».
Dello stesso avviso Marco Grimaldi che dopo aver raccontato la sua esperienza fuori dagli stabilimenti Amazon a contatto con i lavoratori ha poi detto: «il punto debole della destra è che non può rappresentare il mondo del lavoro perché i conservatori e liberali continuano a considerare il costo del lavoro quale unica variabile su cui agire. Se oggi gli ultimi e i lavoratori sono diventati così attaccabili è perché la sinistra si è dimenticata non solo degli ultimi, ma anche dei primi, di chi ha fin troppo».
Tutti ragionamenti corretti, inoppugnabili e meritevoli di essere inseriti in una qualche agenda progressista, ma che eludono la domanda politica di fondo: senza il conflitto di cosa si riempie la democrazia?
La domanda non è affatto anacronistica se prendiamo in considerazione anche solo un paio di dati.
Il primo l’ha citato Fassina in chiusura: «al momento del voto gli operai si astengono al 50%, i quadri al 20%. Del 50% dei lavoratori votanti, poi, la maggior parte oggi vota Meloni e Lega».
Il secondo dato è preso in prestito dall’edizione italiana del libro Disuguaglianza. Che cosa si può fare? di Anthony Atkinson, all’interno del quale la sociologa Chiara Saraceno scrive: «[…] tra il 1978 e il 2012 le retribuzioni degli amministratori delegati sono aumentate dell’876%, a fronte di un aumento del 5% delle remunerazioni orarie del lavoratore mediano, facendo schizzare il rapporto tra le due remunerazioni dal 20% nel 1965 al 273% nel 2012. Di conseguenza, la nuova ricchezza deriva in larga misura da retribuzioni (e dall’aumento sproporzionato delle più alte), non da capitale».
Le ragioni per una ricomparsa del conflitto sociale sono tante, tantissime. I numeri sopra elencati sono di per sé eloquenti, ma, ciò nonostante, il conflitto fatica ad emergere e ad essere visibile in Italia (salvo qualche eccezione, vedi lavoratori di GKN), ma sopratutto continua a non avere rappresentanza politica.
Esiste oggi un soggetto politico che voglia e abbia la forza, la capacità, la lungimiranza e le conoscenze per candidarsi a rappresentare il lavoro? Può un’area progressista definirsi tale senza diventare voce, cassa di risonanza e autentica rappresentanza di lotte locali e nazionali che possono contribuire a ridurre le diseguaglianze e lanciare un rinnovato quanto vitale “assalto al cielo”?
Altrimenti non si capisce su quali basi un’area progressista potrebbe connotarsi senza scadere nel facile gioco delle “larghe intese”, utili nelle competizioni elettorali quanto effimere al presentarsi di migliori opportunità politiche.
Alle domande generali se ne aggiungono poi altre contingenti: Fassina scriveva il “Mestiere della Sinistra” quando ancora sembrava possibile un’intesa duratura tra Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana. Le scelte pre-elettorali hanno infranto questa possibilità, ma la linea politica di Conte sembra aver aperto un nuovo capitolo per il M5S che può, alle attuali condizioni, legittimamente candidarsi a far parte di un’area progressista e fors’anche indirizzarla. Anche le proposte di Sinistra Italiana-Verdi spingono in questa direzione (gli unici in Parlamento ad aver presentato una proposta di legge patrimoniale sulle grandi ricchezze).
Del Partito Democratico, invece, cosa pensare? Se, come ha ricordato Airaudo, «la percezione di tradimento della sinistra tra i lavoratori è alta e si è consolidata nel tempo», è possibile immaginare il Partito Democratico all’interno di un nuovo “fronte progressista”?
Lascio volutamente aperte queste domande, nella speranza che possano stimolare il dibattito pubblico sul territorio, anche in vista dell’imminente tornata elettorale comunale a Ivrea, nella consapevolezza che “la politica eporediese” ovviamente sarà condizionata dai posizionamenti nazionali.
La proposta di Andrea Gaudino e di Laboratorio Civico di mettere le forze politiche dell’opposizione locale attorno ad un tavolo è senz’altro da tenere in considerazione, ma con quali novità si presenterebbero alla discussione il PD eporediese, il M5S e ViviamoIvrea? E che ruolo avrebbe in questo contesto il tessuto associativo che tanta parte ha nella vita del territorio?
Ma, soprattutto, come reagirebbero gli elettori? Perché, diciamolo, non basta un programma elettorale redatto qualche mese prima del voto per fare di un progetto politico, un buon progetto politico. E se assumiamo come dirimente il rapporto democrazia-conflitto sociale per una rinnovata area progressista e per ricostruire il legame con quell’ultimo miglio che si allontana sempre di più, non si capisce come la semplice unione elettorale delle opposizioni possa andare in questa direzione.
Queste appunti a margine hanno una modesta ambizione: offrire un punto di vista diverso per l’imminente tornata elettorale locale ed evitare che la discussione venga ridotta e paralizzata dal dubbio “e se vincono di nuovo le destre?”.
È un dubbio legittimo, ma l’esperienza del marzo 2019 quando associazioni, cittadini e forze politiche unite fermarono la realizzazione dell’ennesimo supermercato alla stazione (vicenda Coop) dimostra e ci ricorda che esiste un modo di fare politica fuori dai palazzi e dalle sale consiliari in grado di ottenere risultati significativi, nonché l’unico per ridurre la distanza di “quell’ultimo miglio” di cui scrive Ettore Macchieraldo nel suo articolo su questo giornale.
Ovviamente benvenuti e graditi tutti gli interventi che arricchiscano o critichino o contraddicano i ragionamenti qui esposti.
Andrea Bertolino