In seguito alla morte di due senzatetto a Torino, si cercano soluzioni per un sistema di accoglienza insufficiente e che rischia di incoraggiare l’interventi poco desiderabili da parte dell’estrema destra
L’attenzione riservata alla questione dei senzatetto a Torino, dopo lo sgombero avvenuto circa due settimane fa, è ancora piuttosto alta. Ad alimentarla amaramente è stata la morte di due senzatetto avvenuta nel giro di una settimana, la più fredda di questo mese: il primo ritrovato esanime in un dehor del centro; il secondo morto di freddo su una panchina. La narrazione mediatica di entrambi i casi, seppur dispiaciuta, risulta piuttosto ipocrita come da copione: di Mostafa si è sottolineato il suo aver sempre rifiutato di sottoporsi alle cure sanitarie e di recarsi in dormitorio; di Radu si è invece ben segnalato l’alcolismo. Queste morti avvengono con un tempismo fin troppo nero rispetto alle dichiarazioni di Emiliano Bezzon, comandante della polizia municipale, e della vicesindaca Sonia Schellino che avevano scoraggiato la dinamica delle elemosine e della solidarietà individuale ai clochard del centro, e soprattutto allo sgombero delle persone accampate sotto i portici di via Cernaia, corso Vinzaglio e via Viotti. Le nevicate dello scorso finesettimana hanno assunto un alone macabro per chi ha seguito la questione; osservare i fiocchi scendere e subito dopo tutti coloro (e sono tanti) che si preparavano a passare la notte in strada ha fatto presagire ai più ciò che effettivamente è successo e che succede ogni anno: un bollettino dei deceduti per il freddo snocciolato dai giornali nei giorni immediatamente successivi. Ed ecco che da destra e manca ci si affretta a compiangere, distanziarsi, smentire, promettere, discutere, riparare, progettare.
Indecorose accuse
Prima tra tutti, la sindaca si è premurata di deresponsabilizzarsi in merito all’accumulo ravvicinato di episodi spiacevoli e controversi – tra cui il nuovo regolamento che renderebbe più incerta per i senzatetto la possibilità di accompagnarsi al proprio cane – che ha investito la comunità dei senzatetto torinesi. In seguito all’accusa diffusa di aver tessuto una sorta di strategia ostile ai senzatetto, ben espresse da Livio Pepino su Volere la luna, Chiara Appendino ha affermato in un’intervista: “i fatti in questione sono tutti indipendenti e condotti da autorità ed istituzioni distinte. Non c’è dunque un collegamento tra essi, ma una ratio alla base dell’agire pubblico che è sempre e solo la tutela di tutte le persone, a partire dalle più fragili”. La prima cittadina ha dunque negato la presenza di una specifica strategia ostile in atto; eppure è evidente una strategia opposta, di segno per così dire “positivo”, che cozza in modo particolarmente vistoso con la presenza di persone accampate sotto i portici e senza fissa dimora: Torino è da anni oggetto di ampi piani di riqualificazione, particolarmente intensi nel centro città, e non è una novità che il primo approccio per attuarli sia l’intervento violento contro chi è d’intralcio. Non è sfuggita la brutalità con cui lo sgombero di due settimane fa è avvenuto: coperte ed altri averi sono stati gettati nei cassonetti in pieno inverno. La situazione è stata dipinta coi soliti tratti semplificanti: donazioni ed elemosine ai senzatetto andrebbero limitate poiché portano questi a non rivolgersi ai servizi preposti proprio alla loro sicurezza e presenti in abbondanza; peccato che non sia proprio così.
Problemi di (in)accoglienza
Sono numerose, infatti, le segnalazioni delle associazioni che si occupano di accoglienza, come il Gruppo Abele o CNCA, riguardo all’insufficienza delle strutture disponibili per i senzatetto in città. Nonostante la retorica sfoggiata nelle interviste pubbliche dai membri dell’amministrazione, che hanno l’ardire di accusare chi vive in strada di “snobbare” servizi presentati come senz’altro abbondanti ed efficienti, la situazione dei dormitori è descritta, da chi vi lavora e anche da chi vi si reca, come tutt’altro che desiderabile: affollamento, liste d’attesa, incertezza e, in piena epidemia, l’impossibilità di rispettare le misure sanitarie minime. Non c’è da stupirsi se molte persone preferiscono la strada ai dormitori; e nemmeno che molti semplicemente vi rinuncino perché troppo complesso accedervi con cadenza quotidiana; per non parlare di alcune spiacevoli restrizioni all’accesso: alcune sedi richiedono un documento d’identità valido, risultando inaccessibili a chi vive una situazione di irregolarità (e dunque di maggiore fragilità), altre richiedono piccoli contributi monetari che, però, possono risultare gravosi per chi non ha nulla. Vi sono, certo, strutture totalmente gratuite e senza alcuna limitazione all’accoglienza, ma sono insufficienti per il numero di senzatetto presente in città, stimato dall’ISTAT attorno alle 1729 persone nel 2014, più elevato oggi (circa 2500) secondo le associazioni. Un’ulteriore criticità è che le donne, anche in questo ambito, vengono sottorappresentate. A fronte di qualche dormitorio misto, i dormitori aperti esclusivamente agli uomini sono decisamente più numerosi rispetto a quelli dedicati alle donne: questo è in parte spiegabile attraverso le statistiche, che indicano in generale una minoranza significativa di donne senza fissa dimora. È pur vero, tuttavia, che la condizione di una donna costretta a vivere in strada è particolarmente difficile: sicuramente adibire un maggior numero di spazi safe per le donne in situazioni di fragilità, in cui queste possano passare la notte e trovare accoglienza porterebbe forse a un riequilibrio delle statistiche (se il servizio c’è, lo si usa), oltre che un po’ di sollievo in situazioni drammatiche.
Edificanti collaborazioni
Sono stati molti gli appelli rivolti alle forze politiche per prendere provvedimenti riguardo a tale drammatica situazione. Riccardo de Facci, presidente del CNCA, ha sollecitato misure urgenti e strutturali di fronte al “disagio che riguarda, nelle nostre città, fasce crescenti di popolazione” anche a causa della pandemia da COVID. “Non ci servono sceriffi ma amministrazioni capaci che promuovano una vera integrazione sociale”, titola il comunicato del CNCA. Anche l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, si appella alla tradizione della solidarietà e dell’accoglienza che ha sempre caratterizzato la città e chiede a parrocchie e a famiglie private di “aprire ancor più le porte delle loro case” non senza offrire in prima persona l’esempio ed ospitare una trentina di persone in difficoltà in un’ala dell’Arcivescovado. E non senza aver partecipato, in prima persona, all’incontro tenutosi il 9 febbraio insieme al prefetto Claudio Palomba, la vicesindaca Sonia Schellino, nota per le dure dichiarazioni che hanno accompagnato quelle di Bezzon, e la sindaca Chiara Appendino. L’esito dell’incontro è un generale intento di prendersi cura della questione, intensificando i servizi sociali e il sostegno alle associazioni, assegnando dei tutor ai senzatetto e assegnando loro delle case, prevalentemente di proprietà delle diocesi, si pensa anche a mettere in comodato uso i numerosi spazi dismessi della città. Ma la città non godrà solo dell’illuminata – e in fin dei conti tardiva – carità ecclesiastica (che giustamente è stata sollecitata); vi è una presenza inaspettata che ha fatto sentire la propria voce (oltre che gli schiaffi): gli esponenti di Casapound sarebbero infatti particolarmente preoccupati per la situazione di degrado in cui versa il Centro città, in mano ai senzatetto sotto i portici e agli spacciatori irregolari nei giardini. Effettivamente, gli inesistenti abitanti di un centro ormai totalmente commercializzato (e dunque, nell’attuale situazione pandemica, decisamente svuotato) potrebbero non sentirsi al sicuro: meglio organizzare delle ronde punitive.
Si sa, contro la povertà le maniere forti sono le migliori (ironia: sembra essere una regola condivisa sia dall’amministrazione, che ricorre agli sgomberi muscolari delle forze dell’ordine, che da Casapound). È auspicabile che dal dibattito in corso emergano in fretta misure efficaci e responsabili per gestire la situazione, se non si vuole che questa cada in mano a interventi ben poco desiderabili e, questi sì, decisamente degradanti.
Lara Barbara