Nel 2020 un femminicidio al mese in Piemonte ad opera di partner o ex-partner.
Raramente su queste pagine ci siamo occupati di cronaca nera, sia per nostra natura di giornale d’analisi, sia per mancanza di interesse nel nutrire la morbosa curiosità che caratterizza gli esseri umani.
Questa posizione non può essere più mantenuta di fronte alla rapida serie di femminicidi avvenuti in Piemonte negli ultimi mesi, cresciuti tanto da aver assunto le dimensioni di fenomeno a sé stante necessario di una più profonda riflessione.
Un po’ di dati.
L’ultimo di questi delitti è avvenuto circa una settimana fa a Carmagnola, dove un uomo ha ucciso cruentemente la moglie e il figlio, tentando in seguito di togliersi la vita, senza successo. È il quinto femminicidio dell’anno. Circa sei mesi prima, sempre a Carmagnola un evento simile, con un altro uxoricidio seguito velocemente dal suicidio del marito. Volendo andare oltre ai casi particolari, i dati parlano chiaro: come appare nel rapporto del Servizio analisi criminale della polizia, di 112 femminicidi commessi nel 2020, 15 sono avvenuti in Piemonte, secondo solo alla Lombardia con 21 casi. Se invece si conteggiano le donne uccise da partner o ex-partner, il Piemonte risulta prima regione in Italia con 12 casi in un anno, uno al mese.
Avvicinando lo sguardo al nostro territorio, notiamo come di recente il Canavese sia stato teatro di crimini che, seppur tecnicamente non ascrivibili al femminicidio, ne condividono l’origine culturale. Lo scorso settembre a Rivara Canavese un uomo uccide il figlio di soli 11 anni, dopodiché si toglie la vita. A dicembre nel piccolo paese di San Sebastiano Canavese, un altro uomo si spara in testa durante una videochiamata con la figlia di 6 anni. Entrambi i gesti paiono essere stati compiuti con l’intento di punire le ex-partner, colpevoli di averli in qualche modo “traditi”.
Che dire?
Se in questa serie di tragedie si può cogliere qualcosa di buono, è che attirano l’attenzione sul tema del femminicidio e alimentano un dibattito un po’ più serio sulla questione della cultura del possesso all’interno delle relazioni, vero problema culturale ancora radicatissimo nel nostro Paese. Gelosia, controllo sull’altro e sulle sue frequentazioni, scatti d’ira e bisogno costante di conferma dei sentimenti reciproci sono tuttora considerati, da alcuni uomini ma anche da diverse donne, come una dimostrazione di interesse da parte del partner e non come un segnale di pericolo.
Bene quindi che se ne parli, soprattutto visto come solitamente sono trattati i temi femministi dai media di massa, che alternano momenti d’interesse ritualistico come l’otto marzo ai più quotidiani siparietti tragicomici dove si alternano battute sessiste di cattivo gusto, reazioni indignate e pubblicità di assorbenti “girl-power”. Un genere di show tutto mediatico e disconnesso dalla realtà, dove i problemi legati al ruolo della donna diventano ben più concreti e quotidiani.
Nel mondo reale, fuori dalla bolla dei social e degli opinionisti, chi si occupa di queste problematiche sono i movimenti e le associazioni per le donne di natura più o meno istituzionale, che hanno il merito di aver diffuso la consapevolezza riguardo queste tematiche e aver permesso un avanzamento del dibattito pubblico sul tema, oltre ovviamente ai vari centri di assistenza e di ascolto, che aiutano le donne vittime di violenze. L’attività effettiva di questi centri si è ovviamente ridotta dall’inizio della pandemia, un periodo durante il quale i femminicidi e le violenze domestiche sono gli unici reati ad aver subito un incremento, con picchi durante i periodi di lockdown più serrato.
Sono poi attivi in alcune città dei centri di ascolto anche per uomini maltrattanti, un servizio relativamente poco noto che si inserisce all’interno dei tentativi di riduzione del danno sociale. È un tipo di approccio di cui si sa poco e di cui si parla anche meno, ma potrebbe rispondere alle due domande che come società dovremmo porci, dopo l’acquietarsi del polverone mediatico: potevamo fare qualcosa per evitare che accadesse? E di queste persone, cosa ne facciamo?
Che fare?
Se è giusto e condivisibile condannare in toto tali atti, così come il retroterra culturale dal quale originano, è altresì vero che come società abbiamo il dovere e la necessità di indagarne le cause per evitare che accadano ancora e immaginare comunque un percorso di reinserimento anche per queste persone. Il fatto che molti di questi episodi finiscano quasi sempre con il suicidio dell’uomo potrebbe iniziare a dirci qualcosa: durante quest’ultimo anno di grande preoccupazione mondiale per la salute fisica, la salute mentale è passata (ancora di più) in secondo piano. Se è la cultura del possesso a fornire a queste persone una giustificazione dei propri comportamenti, è anche evidente la presenza di un malessere mentale, che trova sfogo prima sugli altri e poi su di sé.
Se è vero, come scrivono spesso i giornali, che questi uomini stavano attraversando un momento difficile, com’è possibile che nessuno se ne sia accorto? Del resto, tutti abbiamo sperimentato come la clausura e l’incertezza del lockdown possano renderci peggiori, perché al di là della tanto sbandierata solidarietà nazionale, alla prova dei fatti la crisi ci sta facendo scoprire meno propensi a preoccuparci degli altri.
Servirebbe ben più di un articolo per parlare delle falle del sistema psichiatrico nazionale, ma ancora oggi la salute mentale è inquadrata come un problema secondario e individuale: solo chi se lo può permettere fa un percorso con un terapeuta; per gli altri la soluzione si traduce in qualche psicofarmaco che ti permetta di tirare avanti e andare al lavoro tutti i giorni, compreso quello della strage. Agendo sul piano culturale fin dalla più tenera età, su maschi e femmine, si potrà forse sperare di ridurre episodi come questi, che comunque si ripeteranno fino a quando non saremo, come società, abbastanza responsabili da capire che il malessere di qualcuno, sia esso legato a un virus o a qualcosa di più profondo, è un problema di tutti, ci piaccia o meno. Altrimenti, possiamo continuare a esprimere la nostra sempre meno necessaria opinione all’interno del ciclone mediatico che si scatena intorno al mostro di turno, pur consapevoli che i mostri non esistono.
Lorenzo Zaccagnini