“…ad una rapida ricerca risulta essere un poeta…”: intorno alla poesia; un’intensa esperienza poetica? La scrittura spontanea. Prima parte
Da un blog “di politica” piuttosto attivo un autore nascosto dietro uno pseudonimo aggredisce un mio precedente articolo di questa rubrica accusandolo di “fare affermazioni indegne” e di essere “altamente irritante”. Con animo dispettoso afferma anche che l’articolo è di “un tale” (segue mio nome e cognome); sicuro di fornire ulteriore prova della bassa affidabilità che merito, aggiunge: “… il personaggio in questione, che ad una rapida ricerca risulta essere un poeta…”. Figuriamoci… Un poeta!
Non credo che il poeta della rapida ricerca sia io. Il caso è che essere definito un poeta è, per uno che si crede un po’ poeta, non solo un onore ma una vera pompata all’ego. Al mio ego! Questa è la volta mia, mi sono detto. Ebbene sì. Mi considererò per una volta e per voi poeta.
Leggo molta poesia e scrivo molta poesia; ho scritto tante volte sulla poesia degli altri ma non ho mai scritto sulla mia né l’ho mostrata. L’ho praticata e me la sono goduta da quando ero adolescente e ho insegnato a praticarla e a godersela agli altri “ufficialmente” in un’epoca della mia vita. Essa è stata ed è tuttora una delle mie grandi figure del piacere. Un’esperienza, come ogni figura del piacere, fisica e viva, a volte inquietante e dolce, insopportabile o appagante come l’amore, come l’amore fisico, puro consumo e puro investimento allo stesso tempo.
Scriverò oggi, quindi, sulla poesia e in qualche modo (lo deciderà il lettore) sulla mia poesia. Cercherò d’immergere chi sarà motivato in un’esperienza poetica particolare, in un gioco (il lettore è avvisato) un po’ serioso e a volte faticoso ma curioso ed intenso.
Ma, cos’è la poesia? Non mi dilungherò. Definire la poesia è, come definire l’amore, oggi, e da più di quaranta secoli, una difficile impresa. Non lo farò. Chiunque però sa riconoscere il linguaggio poetico, una poesia. Possiamo sbagliare se affermiamo supponenti davanti ad un testo poetico: “questo non è poesia”, ma difficilmente sbagliamo quando in cuor nostro fiutiamo nelle parole, nostre o degli altri, gli aromi “della poesia”. Persino un bambino li sente. La poesia ha una dinamica paradossale e inafferrabile: sfruttando il massimo grado di complessità di una lingua, le sue possibilità più estreme, ci offre il suo grado massimo di significato, quello per noi più personale e intenso. Ma non un significato razionale, “cerebrale”, controllato dall’Ego tecnologico e freddo, bensì un significato che emerge all’improvviso, pilotato, diciamo, dal nostro intero corpo, dal cuore, dal cervello, dallo stomaco, dalla pelle; non spinto solamente dal nostro presente più controllabile ma dal nostro passato anche dimenticato, e sì, anche dal nostro immaginato futuro, dalle nostre speranze e dai nostri desideri; un significato spinto dal nostro subconscio e dalla nostra memoria ma anche tarpato dalle zavorre delle nostre regole e delle nostre convinzioni. Non è facile percepire, quindi, tutti gli aromi, colori, suoni, sapori, carezze o morsi di certe poesie, ma se, in qualche modo, le percepiamo, siamo persi: ci emozioniamo, riflettiamo, ci viene persino la pelle d’oca.
Le parole della poesia permeano la pelle del mondo, non solamente quelle che scrivono “i letterati” (le “più difficili”, dicono) ma anche quelle dette mentre si lavora, mentre ci si incontra e si canta, mentre si cercano o si perdono l’amore o il disamore, nel rock e nel pop, nel rap e nel trap; politica o sentimentale, colta o popolare, sociale o intima, mistica o erotica, delirante o assennata, spontanea o a tavolino, adolescenziale o matura, la poesia è sempre intorno a noi, in noi.
A questo punto forse state già evocando le vostre personali esperienze poetiche; se scrivete poesia, che tipo di poesia scrivete; che poeti o che poesie vi piacciono, letterati o cantautori, rockettari o rapper, classici o attuali, in rima o verso libero; quali cantate insieme ai vostri amici allo stadio o al karaoke, quali vi tenete per voi, qual è l’ultima poesia che vi ha colpito, forse dieci minuti fa, in qualunque piattaforma musicale, una cover, una hit, come nasce una poesia, perché spesso non capiamo i giochi linguistici del poeta…
A me piace leggere o ascoltare ogni tipo di poesia in una lingua che conosca, ma scrivo poesia in spagnolo o in italiano. Sono stato molto fortunato: molti dicono che si ha una sola lingua madre ma io ho due lingue madre (o due madrilingua), e tutte e due mi danno da sempre tanto; la mia madrelingua biologica, la lingua spagnola, è tutto per me, ma anche la mia lingua madre adottiva, la lingua italiana, è tutto per me. E io sono tanto per loro. Abbiamo un bellissimo rapporto. Sono molto amiche e vivono sotto lo stesso tetto, fanno il bagno nello stesso mare e respirano la stessa aria, i loro genitori, nonni, bisnonni, antenati, si conoscono da migliaia di anni. Sono molto diverse ma si capiscono al volo, la convivenza fa molto. Ogni tanto discutono ma il bisticcio dura poco: subito si immedesimano nelle ragioni dell’altra. A volte, quando discutono, sono io chi le mette d’accordo. Le conosco bene e so gestire il loro amor proprio. Non ditemi che non sono fortunato.
Scrivo poesie, quindi, in spagnolo o in italiano, ma l’esperienza poetica che sto per proporvi l’ho scritta nella mia lingua madre adottiva italiana. Non ho scelto io, anzi, meglio dire il mio Io, mi ha scelto lei. Forse più avanti riuscirò a spiegarvi il perché. Ho detto che sto per proporvi un’esperienza poetica perché preferisco per il momento non chiamarla poesia. Io credo che sia poesia ma sarete voi a decidere. Preferisco anche chiamarla esperienza perché di un’esperienza, per certi versi conturbante, si tratta, come vedrete in seguito. Un’esperienza che sicuramente vivono anche molte altre persone.
Qualche dubbio, però, che serve anche da preavviso: è opportuno rendere pubblica una esperienza personale così come si manifesta? È giusto coinvolgere il lettore ed invitarlo ad immergersi in una esperienza che rischia di diventare stenuante? Decida lui…
Dunque…
Succede da un po’ di tempo a questa parte che io mi svegli spesso di primo mattino; nelle situazioni che sto per descrivervi sempre tra le 5.30 e le 5.45; in alcune di queste occasioni, appena sveglio, ancora a letto, mi viene in mente spontaneamente una sequenza di parole, per esempio, un certo giorno: “Oh notte, [oh morte] giubilosa, incantata dall’ oro e dalle perle…”, oppure, un altro giorno: “Erba che canta sul margine giallastro della notte…”, od un altro giorno, ancora, “Cade la pioggia, cadono i piatti, cadono le mandorle…”. Non ho tempo di chiedermi come mai questo succeda. Avviene. La sequenza ha un suo ritmo interno, una sua musicalità, in questa, per esempio, si percepisce spontaneamente l’accento nelle penultime sillabe: ““Oh notte, [oh morte] giubilosa, incantata dall’oro e dalle perle…”. Simultaneamente mi viene da prendere carta e penna. Se però succede che non le trovi, allora l’esperienza si ferma lì. Inutile ricominciare quando, un minuto dopo, ho l’occorrente. Il momento è irrecuperabile. Quando invece trovo subito l’occorrente la scrittura avviene spontanea, si sviluppa lineare e senza esitazioni, con sorprendente rapidità: “Oh notte, [oh morte] giubilosa, incantata dall’oro e dalle perle, dal luccichio indecente delle sete e dei velluti, invissibile riflesso delle luci, lontananza e presenza inconvente delle giungle, delle selve lontane e dei fiumi caudalosi, rumorosi, assordanti, cascate di fuoco, d’acqua, d’argento vivo, di oro crogiolato nelle oscure botteghe antiche come ossa dall’ossario infinito del tempo…” . Avanti. Non c’è modo di fermarsi. Avanti, Avanti. Un dubbio o un ripensamento e l’esperienza finisce…
L’esperienza dura quasi sempre intorno ai 10 minuti, il numero di parole scritte spontaneamente è, quasi sempre, intorno a 200, il numero di versi, dopo la rielaborazione esclusivamente grafica, 70 o 80. Ora, durata e quantità di scrittura spontanea sono pressocché costanti. Il flusso pulsionale della scrittura assolutamente continuo. Solo la lettura successiva evidenzierà errori ortografici o sintattici, associazioni inattese o legami impropri ma, sono davvero errori, associazioni inattese o legami impropri?
Per esempio, risulta scritto “…mentre l’animo vola e si innabissa nelle gole profonde, umide, teporose, della terra di ognuno, del territorio (proprio) lasciato senza vigili, senza guardie, senza porte, senza chiavi…”, oppure, “…vicini come il sudore alla pelle, come le lacrime, come la ansiosa fame che attenaglia le viscere molli, le cervella, le labbra bisognose d’amore e di saliva…”. Innabissa o attenaglia, sono errori ortografici? Sicuro? C’è una ragione? Perché la mia mano ha scritto così?
In un certo punto è scritto: “[…]… sveglia oh anima, oh mente, oh conscienza, oh morte, sveglia, apri queste finestre, scardina i gozni delle porte, e torna viva, della vivacità del giorno che parte nuovo o vecchio…”. Perchè, pur conoscendo io bene il termine “cardini”, la mia mano ha scritto la parola in spagnolo “gozne” col plurale con desinenza in italiano? In un altro punto è scritto: “… del sogno roboante che atturde nella distanza della notte vicino ad un alba chiara che amortizza la pazienza e annienta il sorgere dell’anima, la delicata essenza delle cose…”. Come mai è scritto “atturde” in spagnolo sbagliato e poco usato anziché il termine “stordisce”, in italiano, che ben conosco ed uso?
A volte le associazioni inattese sfidano la mia comprensione: neanche io capisco inizialmente quello che c’è scritto: “…l’acqua trascina le ossa del sacrificio, si spense il fuoco e i fumi non hanno raggiunto l’alto, la storia si riapre e si richiude come una ferita insana…”. Oppure: “…alveari de coscienza e di miseria, lingue biforcute che lambiscono i fiori dell’arancio, la zagara profumata delle pastiere napoletane e i rami di sposa”. Possibile che queste frasi non abbiano senso? Io penso che ce l’abbiano. In che parte di me ha scavato la mia coscienza per creare queste associazioni? Che senso hanno? Bisognerà scoprirlo.
Trailer:
“…inondazione che alimenta i tetti e i pavimenti, le travi, solette, intercapedini, e cola, gocciola, invade, bagna ogni anfratto e lo riduce ad alveo, estuario, meandri per dove transita il dolore e la paura, e le gioie inconsulte, incontrolabili dagli dei…”
“… i flussi della notte, le grida ansimanti tra le lenzuola, notte candente con la luna che bagna le pareti ed il vento che muove le foglie, i cavi della luce, i lampioni.”
“…ed il temporale amaina, si assopisce, dorme come i gatti …. ronroneando, fuseando, scalmanando con le unghie tappetti, pisciando qua e la contro le mura del manicomio, guizzando come lucertola…”
È questo poesia?
Se poesia è, (o almeno materiale grezzo, proto poesia), che tipo di poesia è? Ha una sorgente comune con altri tipi riconosciuti formalmente come poesia? Per esempio, con la poesia automatica dei simbolisti e surrealisti (Rimbaud, Mallarmè; Breton, Artaud… )? O con “il flusso di coscienza” (Joyce, Woolf, Bolaño…)? Con la poesia ermetico-orfica (Ungaretti, Campana, Zanzotto…)? Con la poesia della Beat Generation (Ginsberg…)?
Sì e no. Il sì è abbastanza ovvio: anche se in forma primaria e non elaborata qualcosa di poetico c’è in questa “poesia”. Il no è chiaro: l’esperienza di poesia spontanea qui proposta non subisce nessuna elaborazione cosciente, è un’esperienza non mediata, pura. Il suo risultato coincide con la sua epifania. Quando appare già è, se lo è. Non ha ripensamenti, cancellazioni, sostituzioni, calcoli metrici o concettuali, intenzione o finalità come hanno gli altri tipi di poesia. E’ pura fisicità. La si può rielaborare, modificare, “migliorare” ma allora non sarà. Sarà un’altra cosa. La si può anche ignorare…
Chiudiamo qui la prima parte. Chi sarà ancora motivato troverà nella seconda parte le risposte alle questioni aperte e il testo completo dell’esperienza proposta (Poesie spontanee n. 1, 2 e 3). Nella terza parte verrà editata “in versi”, senza alterare il contenuto, la Poesia spontanea n. 3 in modo da esplorare la sua struttura, i suoi sentieri, il suo impervio sottobosco, le sue radure…
Paco Domene