Mentre nelle interviste sui giornali economici il nuovo Ceo parla di una seconda vita di Comdata, dai call center ai servizi tech, e di forte crescita, i problemi di chi lavora nel call center rimangono. Intanto altri 114 lavoratori vincono in appello la causa contro la cessione a Comdata da parte di Vodafone del 2007.
In Comdata, come nella maggior parte delle aziende, quella che era un’esigenza portata dalla pandemia si sta radicando come normalità. Parliamo del lavoro da casa. Organizzato in emergenza con non poche difficoltà iniziali subito dopo la chiusura della sede dovuta all’insorgere dei primi contagi il 17 marzo scorso, vede oggi ancora circa 800 dipendenti in telelavoro (lo smart working è altra cosa) e circa 250 in sede, tra dipendenti e interinali. Passando davanti alla sede nello storico Palazzo Uffici in via Jervis 77, si nota subito il vuoto nel parcheggio dove prima del Covid era un’impresa trovare un posto. Oggi è deserto. Sembra un fatto positivo: meno auto meno inquinamento, meno spostamenti meno costi. Tutto bene quindi? In realtà no, perché il lavoro da casa nasconde delle insidie non da poco per i lavoratori, come ben spiega Stefano Vento su Su la testa: «Una delle controindicazioni del telelavoro – una delle più avvertite, sicuramente – è fuor di ogni dubbio il senso di solitudine che porta con sé. I luoghi di lavoro, tradizionalmente intesi come spazi di aggregazione e socialità, rischiano di rimanere deserti. Basti pensare che tra coloro che in questo momento lavorano da casa vi sono gli operatori dei call center, emblema della precarietà e dello sfruttamento selvaggio in cui si è attanagliato il lavoro negli ultimi anni. La smaterializzazione dei luoghi di lavoro e i processi di precarizzazione corrono quasi sempre sullo stesso binario. In un sistema economico che sin dalla nascita orienta all’individualismo più estremo e alla competizione più becera, privare queste categorie di lavoratori di ogni contatto diretto con i propri colleghi espone al pericolo concreto di neutralizzare ancora di più il conflitto sociale. E senza la capacità di orientare le scelte sociali, le aziende potranno perseguire, come hanno sempre fatto, i propri interessi, a detrimento di quelli della collettività – vendendo per “conciliazione tra vita e lavoro dei dipendenti” la più grande operazione di destrutturazione se non proprio di distruzione dei diritti e del lavoro degli ultimi decenni.» Ed è proprio quello che sta accadendo in Comdata, ma di certo anche in altre realtà. Si pensi alla penalizzazione dei lavoratori a fronte di interruzione o lentezza dei sistemi e delle connessioni, messi in Fis (la cassa integrazione delle Tlc) o in ferie per far pesare su di loro e non sul rischio d’impresa i fermi di servizio. Si pensi agli inviti ad andare a casa, mettersi in ferie, perché c’è un calo dei volumi delle chiamate. Questo accade da sempre, ma quando i lavoratori erano in sede, potevano rivolgersi a un delegato, confrontarsi con i colleghi e magari insieme a loro definire un comportamento comune. Ora da casa è ben difficile, il lavoratore per lo più decide da solo subendo maggiormente la pressione del team leader, del supervisor, del responsabile del personale. Nelle pur brevi e scaglionate pause, i lavoratori potevano parlare fra loro dei problemi incontrati, di situazioni critiche, scambiarsi consigli e informazioni, da casa al massimo i lavoratori si scambiano messaggi whatsapp che non è esattamente la stessa cosa.
Il premio di risultato. Il primo premio è il lavoro dignitoso.
In questo contesto frammentato, Comdata decide di introdurre il meccanismo del “Premio di Risultato” (PdR) collegato all’EBITDA (margine operativo lordo) del Gruppo Comdata. Ogni anno l’azienda definirà una soglia obiettivo di redditività minima raggiunta la quale potrà scattare il premio che varierà a seconda della redditività della singola commessa e della sede di appartenenza. Con il raggiungimento del 100% degli obiettivi si parla di 800 € lordi annui per un tempo pieno, naturalmente al calare della percentuale di obiettivo raggiunto cala il premio. Si tratta di uno di quei sistemi ormai molto diffusi (moderno cottimo?) che vogliono spingere i dipendenti a lavorare a testa bassa, senza storie, a controllare anche il ritmo di lavoro del collega affinché non abbassi la redditività/ricavo orario del gruppo su una certa attività. Non vi sono parametri che registrano impedimenti oggettivi allo svolgere dell’attività, come fermi di sistema, errate o complesse istruzioni su un dato prodotto, a favore dei lavoratori, sembra si parli solo di ricavo orario senza attuenanti (persino nei reati penali vi sono attenuanti…).
L’andamento di un’azienda, la sua redditività, sono influenzate da molti fattori per lo più nelle mani della dirigenza, che fa le scelte operative, di marketing, di gestione fornitori e dipendenti, e della proprietà che investe o disinveste, acquisisce o vende. Sindacalmente si dovrebbe star lontani da premi legati ai margini aziendali, anche perché c’è ampio spazio di lavoro in altri campi, per conquistare condizioni di lavoro più dignitose, retribuzioni degne, orario certo e garantito, «è frequente che i turni vengano modificati all’ultimo momento chiedendo straordinari o viceversa facendo uscire prima – si sfoga un operatore, che continua – viviamo in un ambiente lavorativo molto stressante, con l’attenzione rivolta esclusivamente ai tempi di chiamata a discapito della qualità del servizio offerto e team leader in costante tensione a causa di questa “filosofia aziendale”. Ci sentiamo come numeri, con la misurazione continua dei parametri lavorativi attraverso il controllo dei tempi di chiamata, la customer satisfaction e la percentuale di richiamate del cliente gestito. Vi sono clienti che chiamano per problemi complessi e le casistiche e offerte nelle maggior parte delle commesse sono molto ampie e non sempre siamo stati formati adeguatamente, è normale che non bastino i pochi minuti a disposizione e quando il team leader ti viene a marcare il tempo, l’ansia cresce e vuoi chiudere al più presto con il risultato di scontentare il cliente che darà un voto negativo e richiamerà.» La battaglia sindacale da fare a livello nazionale e per tutto il settore dei call center è proprio quella di dare dignità a questo lavoro, vietando non solo i bandi al minimo ribasso, ma anche fissando tariffe minime e contratti certi, eliminando le penalità capestro per le aziende di servizi. Nel 2017 l’allora presidente del consiglio Paolo Gentiloni firmò un protocollo d’intesa per i call center con i principali committenti (Eni, Enel, Sky, Tim, Intesa San Paolo, Fastweb, Poste, Trenitalia, Ntv, Unicredit, Wind3, Mediaset e Vodafone), ma come intitolammo l’articolo “un procollo non basta“, questo è un mercato che va costantemente monitorato, perché il far west, delocalizzazioni incluse, è pronto dietro l’angolo.
Appendice della vicenda Comdata Care
Ulteriori 114 lavoratori ceduti nel 2007 da Vodafone a Comdata con accordo sindacale firmato da Cgil-Cisl-Uil, hanno vinto in appello la causa di reintegro in Vodafone.
La vicenda è iniziata nel 2007 quando Vodafone Italia opera una cessione di ramo d’azienda ed esternalizza 914 dipendenti di varie sedi italiane verso una nuova azienda creata ad hoc da Comdata, la “Comdata Care SpA“. Numerosi lavoratori esternalizzati impugnarono subito la cessione di ramo contestandone la legittimità. Nel 2012 il Tribunale del Lavoro di Roma giudica “illegittima” e “inefficace” tale cessione e dispone il reintegro lavoratori che si erano opposti legalmente alla cessione. Nel 2016 la sentenza viene confermata in Cassazione. La prima impugnazione venne portata avanti lato sindacale praticamente solo dal Cobas Lavoro Privato perché le organizzazioni sindacali confederali erano firmatarie dell’accordo di cessione e lo sostenevano verso i lavoratori invitandoli a non far causa. Successivamente, viste anche le sentenze positive, altri lavoratori hanno deciso di fare causa a Vodafone. In primo grado la loro causa fu rigettata per “termini scaduti” (in riferimento al cosiddetto “collegato lavoro” della legge 183/2010), ma l’8 settembre la Corte d’Appello di Torino ha ribaltato il pronunciamento di primo grado dando ragione ai lavoratori. La sentenza è immediatamente operativa, bisognerà vedere come intende muoversi Vodafone, si vocifera che potrebbe offrire del denaro per la rinuncia al reintegro (cioè restare in Comdata), oppure operare un “comando a distacco” (dipendente Vodafone che lavora in Comdata). Occorre comunque attendere le motivazioni della sentenza previste per fine mese ed è molto probabile il ricorso in Cassazione da parte di Vodafone.
Cadigia Perini