Si potrebbe parlare del 2018 come di un annus horribilis, se non fosse che quello che sta terminando è solo l’ultimo di una serie negativa di anni per il lavoro nel nostro territorio. Dovremmo infatti parlare almeno di decennium horribilis.
Il 2018 ha mantenuto le premesse …
- Fine degli ammortizzatori sociali (mobilità e cassa integrazione come li conoscevamo) con migliaia di ultracinquantenni rimasti senza reddito e con la pensione lontana. Sempre più lontana per colpa della riforma Fornero del governo Monti sostenuto dal PD fino al Popolo della Libertà che ha richiesto ben otto “salvaguardie” per arginare il dramma degli esodati.
- Aumento del lavoro precario grazie al Jobs Act del governo Renzi.
- Lavoro sempre più “privato” con l’esternalizzazione di servizi pubblici ad imprese private.
- Terziario calpestato dal predominio incontrastato della grande distribuzione e dalla giungla delle vendite online.
C’erano tutte le premesse per comporre l’attuale quadro occupazionale del paese e del nostro territorio. Territorio che è specchio del paese, anche se finora ha tenuto, ma quanto durerà? Un’ampia fascia di popolazione che viveva solo di reddito da lavoro ha ormai dato fondo ai risparmi dopo anni di cassa integrazione, licenziamenti collettivi, riduzioni di orario di lavoro, taglio delle retribuzioni. E stanno diventando precari anche gli aiuti famigliari, quelli dei genitori pensionati verso i figli che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, che aiutano a pagare un mutuo, a badare ai nipoti per non far perdere il posto di lavoro soprattutto alle mamme, un lavoro che se anche mal pagato e duro porta comunque un’entrata nel magro bilancio familiare.
Le aziende che tengono, quelle che tremano, quelle che chiudono. Il bilancio è in negativo.
Scorrendo le principali aziende dell’Eporediese tra quelle che tengono possiamo citare Wind Tre Spa (600 dipendenti a Ivrea), frutto della fusione di Wind con 3 Italia di fine 2017 che i suoi esuberi li ha già incentivati ad andarsene “volontariamente” in occasione della fusione; Vodafone (oggi circa 500 a Ivrea), che ha tagliato dipendenti a partire dal 2007 con la cessione di più di 900 a Comdata, salvo doverne reintegrare centinaia per le cause vinte dai lavoratori, e poi nel 2013 anche a Ivrea dove ha espulso (questo è il verbo giusto) un centinaio di dipendenti, nonostante gli utili milionari; RGI, che progetta software per le assicurazioni, oggi con 300 dipendenti a Ivrea, nel febbraio 2018 è passata sotto il controllo del fondo finanziario statunitense Corsair Capital che per ora non ha fatto tagli di personale. Finché i profitti saranno ai livelli graditi dal fondo dovrebbe reggere, altro parametro non esiste per le operazioni squisitamente finanziarie e non industriali.
Accanto a queste ci sono naturalmente tante altre realtà con percorsi positivi, si tratta per lo più di piccole o micro imprese, talvolta anche virtuose e tecnologicamente avanzate, aziende delle quali dovremmo parlare per controbilanciare le aree desertificate con piccole chiazze di verdi fili d’erba che se facessero rete fra loro darebbero sicuramente ossigeno al territorio, almeno in termini di speranza per il futuro.
La maggior parte delle medio-grandi realtà aziendali è invece in profonda crisi, ma soprattutto sono in crisi e a rischio povertà i lavoratori e le lavoratrici di queste aree.
Nella nostra cronaca lavoro del 2018 ci siamo occupati di alcune fra le vertenze più significative del territorio.
Partiamo da Innovis, l’azienda nata nel 2002 da una joint venture tra Olivetti Tecnost (80%) e Comdata (20%) per collocare circa 272 lavoratori, considerati esuberi di ristrutturazioni Olivetti e successivamente passata al controllo totale di Comdata che ha così acquisito la commessa Telecom 187. Nei diversi passaggi, la cassa integrazione, l’incendio di Scarmagno, i contratti di solidarietà, le pressioni individuali per spingere i lavoratori più fragili a lasciare l’azienda, si è arrivati infine – grazie solo alla resistenza dei lavoratori e alla tenacia dei delegati sindacali, FIOM in testa – al passaggio nella casamadre con la formula della “cessione del contratto” (art. 1406 del C.C.) con la firma dell’accordo del 27 giugno scorso.
Solo che in Comdata la situazione non è certo rose e fiori.
Molto abbiamo scritto di Comdata e del settore dei call center in generale. Comdata è una delle principali aziende di servizi telefonici in Italia e ha ad Ivrea la sua sede principale con circa 1000 dipendenti diretti più un numero molto variabile di interinali, è normale che il nostro occhio sia ben puntato su questa azienda. La situazione occupazionale di Comdata, sempre in bilico per l’alto numero di lavoratori in somministrazione, per la precarietà dell’orario di lavoro dei dipendenti (ferie obbligate, straordinari e inviti ad andare a casa, …) e per il clima di forte tensione e pressione frutto di ottuse politiche del “bastone e basta”, nelle ultime settimane dell’anno è precipitata. L’azienda il 17 dicembre, come regalo natalizio ai dipendenti, annuncia 200 esuberi per la sede di Ivrea. Giustifica la decisione con il calo del volume di attività in particolare in alcune commesse TIM (quel 187 acquisito con Innovis), Eolo (connessione Internet) ed Enjoi (car sharing ENI). Vi è stata una prima manifestazione unitaria con sciopero e assemblea il 17 stesso davanti all’azienda, alla quale è seguito un incontro con il sindaco di Ivrea (assente invece all’assemblea) in occasione del quale solo la Slc-Cgil ha dichiarato sciopero (le altre sigle lo hanno reputato “inutile”) e durante il quale non è emersa nessuna iniziativa significativa da parte dell’amministrazione eporediese ancora senza assessore al lavoro. Il prossimo incontro azienda-sindacati ci sarà l’8 gennaio, in quella data o verrà firmato un accordo per i contratti di solidarietà oppure l’azienda potrebbe procedere unilateralmente con i licenziamenti. L’8 gennaio non solo dovrà esserci uno sciopero unitario di Comdata, ma tutta la cittadinanza, amministratori in testa, dovrà partecipare.
Il 2018 potrebbe anche essere ricordato come l’anno finale del CIC (Consorzio per l’Informatizzazione del Canavese), in realtà ucciso come ente pubblico nel 2015 quando i suoi soci, fra i principali il Comune di Ivrea, ASLTO3/4, CSI Piemonte, lo hanno venduto alla CSP Spa. Fra i “regali” all’acquirente le commesse in essere per un periodo di tre anni, fino a dicembre 2018. E gli ex soci del CIC hanno mantenuto la nefanda promessa, allo scadere dei tre anni non hanno rinnovato le commesse né inserito la clausola sociale nei nuovi bandi (per salvaguardare chi oggi lavorava su quelle commesse) e il CIC si è ritrovato a secco, anche perché la nuova proprietà nulla ha fatto per far entrare nuove commesse, forse anche distratta dagli ordini di custodia cautelare per frode fiscale nei confronti della presidente di CSP Claudia Pasqui del giugno scorso e dalle indagini della Procura e della Corte dei Conti di Torino sulle privatizzazioni dei centri informatici piemontesi. Il CIC sembra non avere futuro, solo una delle aziende cliente assumerà una parte dei lavoratori del CIC, altri stanno cercando soluzioni individuali, ma la maggior parte è a rischio.
In questo anno che sfata la superstizione che vuole gli anni bisestili sfortunati … abbiamo visto entrare in crisi anche un’azienda storica con prodotti tecnologici di eccellenza e innovazione, l’ex CTS dal 2014 acquisita dal partner commerciale americano Arca Technologies. Arca il 26 marzo di quest’anno annuncia di voler licenziare 103 dipendenti su 280 totali. Parte una grande mobilitazione dei lavoratori, blocco dei cancelli, delle strade, corteo, incontro pubblico il 4 aprile in una strapiena sala Santa Marta, con rappresentanti delle istituzioni, della politica e tanta cittadinanza e lavoratori di altre realtà. L’azienda è stupita della reazione e accoglie la richiesa sindacale (Fiom) di attivare i contratti di solidarietà in luogo dei licenziamenti.
Sempre in questo 2018 giunto agli sgoccioli … mentre Ivrea veniva consacrata Città Patrimonio dell’Umanità, con molta poca “umanità” perdono il lavoro altri 98 ex-olivettiani. Sono i lavoratori della TBSit, azienda nata dalla liquidazione di Agile-Eutelia, cioè quello che era rimasto di Olivetti Systems & Networks in Italia, passato da Wang Global a Getronics e da questa ad Eutelia nel 2006 “per un euro” e quindi venduto al gruppo Omega di Claudio Massa e Antonangelo Liori, condannati definitivamente in terzo grado per bancarotta fraudolenta nel novembre scorso (questa è una buona notizia del 2018…). Dei 2000 dipendenti Agile-Eutelia solo 240 erano passati dall’amministrazione straordinaria al gruppo TBS-EBM e adesso per quasi cento di loro si riapre una porta verso il vuoto.
Cosa porterà il 2019?
Non per essere sempre negativi, ma è bene essere preparati: nel 2019 vedremo peggiorare le condizioni della classe lavoratrice o aspirante tale. Come scritto all’inizio di questo pezzo, nel 2018 ci sono stati gli ultimi periodi di mobilità per i lavoratori di aziende che hanno chiuso o effettuato licenziamenti collettivi, nel 2019 nessuno di loro avrà uno straccio di reddito nè un lavoro. Si tratta di uomini e donne sopra i 55 anni, veramente “vecchi” per le aziende che vogliono giovani duttili, malleabili ed entusiasti.Veramente troppo giovani per andare in pensione. Veramente troppo disillusi per avere un “reddito di cittadinanza” che non esiste, rimane il piccolo obolo del reddito di inclusione (REI) con il quale forse ci paghi il pane con qualche cipolla (non di Tropea che son più care).
Investimenti e crescita occupazionale, sono voci assenti nell’agenda politica del governo giallo-verde e anche in quella imprenditoriale: si pensa alle grandi opere inutili, ai cacciabombardieri, alla pace fiscale (sic), alla tassa piatta (flat tax), si rimanda la riforma delle pensioni, le misure di sostegno al reddito, … Non esiste ombra di un grande piano di rilancio occupazionale attraverso la messa in sicurezza dei territori e degli edifici pubblici, operazione con un duplice ovvio vantaggio: sicurezza e sviluppo. Non si parla poi, anzi è tabu, di una semplice formula che permetterebbe di avvicinarci alla piena occupazione: lavorare meno lavorare tutti! Utopia? Tutt’altro, una necessità come ben documenta Gloria Riva su L’Espresso nell’articolo “Lavorare meno, lavorare tutti: oggi più che mai è indispensabile ridurre l’orario di lavoro.” “Di fronte ai cambiamenti tecnologici c’è una sola strada: ridurre l’orario di lavoro e distribuire meglio i posti. Ma l’Italia fa proprio il contrario (…) l’Italia non sembra ancora pronta a governare il cambiamento e pensare a una riduzione delle ore di lavoro. Al contrario, chi ha un lavoro soffre per l’insufficienza del tempo libero, mentre chi non ha un lavoro soffre per assenza di reddito. E, senza un radicale cambiamento, i futuri giovani degli anni ‘30 rischiano di non avere alternative a questa tenaglia.
E poi esistono i contratti di solidarietà espansiva (lavorare ad esempio un giorno in meno alla settimana per far lavorare più persone) oggetto di una proposta di legge regionale dell’Emilia Romagna avanzata da Piergiovanni Alleva, già ordinario di diritto del lavoro all’università di Bologna e oggi consigliere regionale con la lista “L’altra Europa con Tsipras”.
Difficilmente però il 2019 ci porterà solidarietà e dignità nel lavoro, c’è da lavorare parecchio per ricostruire una coscienza collettiva che ci porti a resistere ed opporci uniti davanti alla distruzione dei diritti del lavoro, a reclamare il diritto alla dignità, il diritto alla felicità.
Buon 2019 lavoratrici e lavoratori effettivi ed aspiranti, sempre a testa alta!
“Avanti avanti avanti si può spingere di più insieme nella via a testa in su.” (G. Gaber)
Cadigia Perini