Una vergogna maschile e nazionale. Qualche riflessione in occasione della passata Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne
Una donna su tre in Italia subisce violenze in famiglia. Molte di loro, siamo a numeri da record, vengono uccise o portano permanentemente i segni delle percosse subite; alcune sopravvivono dopo aver perso un occhio o l’udito grazie alle “amorevoli” ire del marito che, per placare se stesso, a volte le sfregia con l’acido e spedisce anche i figli nell’aldilà. Per fermare questo scempio, sempre più intollerabile, si è svolta il 25 novembre la manifestazione internazionale contro la violenza sulle donne, dove le stesse hanno sfilato in corteo inalberando vessilli e recitando slogan di protesta. Simbolo di questa marcia è stato il segno rosso tracciato con il rossetto sul volto di ognuna delle partecipanti come un’occhiaia ferita.
Dappertutto, puntualmente, si rinnovano gli appelli che incoraggiano le donne a sporgere denuncia contro i compagni violenti e disposti a tutto tranne che a considerare il fallimento etico della loro vita. Purtroppo denunciare non basta perché le contromisure non sembrano idonee a bloccare questi uomini e le donne hanno paura e non si sentono protette. Inoltre, gli arrabbiati energumeni, dopo la denuncia, raddoppiano spesso la loro furia e i propositi di vendetta. Che fare allora? Non ci sono, come sempre, ricette sicure, ma qualcosa potrebbe essere tentato a partire, per esempio, dall’uso del linguaggio. Innanzitutto smettiamola di parlare giornalisticamente di “Amore malato” o di altri penosi ossimori usati per raccontare storie finite tragicamente. Gli ossimori sono controsensi appartenenti al mondo letterario delle figure retoriche. Nella realtà non esiste l’amore malato così come non esiste l’odio gentile o la lucida follia. Le donne devono uscire dall’inferno carcerario in cui si sono cacciate, sicuramente in buona fede, e vanno aiutate e devono aiutarsi. L’impresa è difficile perchè occorre tagliare una serie di vincoli sociali e familiari e trovare il coraggio di denunciare l’uomo che spesso è anche il padre della prole. Inoltre per le donne è doloroso ammettere, con se stesse, che l’uomo che si sono scelte come compagno di vita sia anche mentalmente un povero maschio padrone, infantile e frustrato. Quest’uomo, inferocito e vittima, a sua volta, di atavici condizionamenti sociali (e anche pseudo religiosi) è incapace di accettare la separazione della consorte, unicamente perchè lei si sottrae al suo possesso.
Che la nostra società reifichi gli esseri umani, e soprattutto le donne ne facciano le spese, è cosa che viene da lontano. Il concetto per cui amore e possesso si confondono è alimentato da idee discutibili che hanno inibito la libertà in favore di un certo tipo di matrimonio di cui il regista Bernardo Bertolucci, scomparso in questi giorni, ci ha già dato un saggio, anni fa, con “Ultimo tango a Parigi”. Uscire dalla prigione di un’unione sbagliata, per una donna, è difficile e, tuttavia, almeno chiarirsi qualche idea preventivamente potrebbe essere opportuno. Innanzitutto bisognerebbe non scambiare la gelosia per l’amore e nemmeno legittimare la gelosia cosiddetta moderata, quella che si vuole intendere come innocua dimostrazione di affetto verso il partner. Amore e gelosia sono due termini inconciliabili e antitetici. Semplicemente dove c’è uno non c’è l’altra. La gelosia distrugge, l’amore costruisce. Più spazio alla gelosia significa più violenza in agguato. Se un uomo o una donna sono gelosi, quello è il primo indizio e segnale per cui non conviene rendere definitive le propria scelte. L’amore è alimentato dalla libertà, la gelosia dal possesso e, in quest’ultimo caso, i femminicidi sono le catastrofi di coppia che lo dimostrano.
Inoltre le donne non dovrebbero nutrire troppa fiducia nei propositi di cambiamento inscenati dal marito e commettere addirittura l’errore che, attraverso la progettazione di un figlio, le cose possano cambiare scongiurando la violenza.
L’altro giorno, in tv, una delegazione di donne è stata ricevuta dal presidente della Repubblica in occasione della manifestazione di cui sopra e, osservando la benda nera che copriva l’occhio che non c’è più di una di loro, mi sono vergognato di essere un maschio e di vivere in un paese che dedica milioni di parole alla politica ma che non fa nulla per l’educazione ai sentimenti. Certo è che se, come ho visto in tv, specchio della società in cui viviamo, questa educazione viene lasciata alle considerazioni di personaggi come Stefano Zecchi che, esperto in estetica, predica il valore dei sentimenti e si accanisce contro la deplorevole, per lui, pratica dell’autoerotismo e dell’uso dei sexy toys per il piacere solitario, allora vuol dire che la notte è ancora molto buia.
Pierangelo Scala