Peggiorano nell’indifferenza generale le condizioni di lavoro di operatori e operatrici dei call center, cottimisti moderni senza prospettive di miglioramento.
Esiste un luogo, dagli anni cinquanta, un grande edificio, a Ivrea. Un luogo di lavoro. Luminoso e virtuoso esempio di architettura del ventesimo secolo firmato dagli illustri architetti Gian Antonio Bernasconi, Annibale Fiocchi e Marcello Nizzoli. Attorno a questo edificio un bel parco e alberi scelti con cura dall’architetto paesaggista Piero Porcinai. Ampie vetrate, arioso scalone interno, caldo legno, un bel luogo dove lavorare. Gli eporediesi lo chiamano Palazzo Uffici, PU i più intimi.
Peccato. Peccato però che oggi centinaia di lavoratori vivono l’entrarci come un incubo. Sono i callcenteristi di Comdata.
Chiariamo, il problema non è tanto o solo “Comdata”, anche se questa azienda, da quel luogo e da quel che rappresenta dovrebbe farsi ispirare per attuare una gestione delle “risorse umane”, più umana, appunto, ma è proprio il tipo di lavoro, questi benedetti e maledetti servizi telefonici che generano lavoro opprimente.
Questo settore è ormai diventato una giungla dove vige la legge del più forte. Le aziende di call center si fanno una concorrenza spietata mirata alla riduzione all’osso dei costi per soddisfare le richieste dei clienti che adottano il criterio del “massimo ribasso” per assegnare una commessa. I vari colossi telefonici e dell’energia non si fanno problemi a chiedere tariffe insostenibili (salvo pagare gli operatori 30 centesimi all’ora forse) ricattando le aziende di servizi telefonici come Comdata, aziende che rinunciano alla contrattazione perché sanno che il cliente da qualche parte nel mondo, ma anche in Italia, troverà sempre chi gli fa il lavoro sottocosto, sottopagando quindi i lavoratori.
Il 187 TIM a Ivrea
E’ successo anche a Ivrea con il 187 TIM che ha ridotto il passaggio di chiamate perché Comdata non aveva accettato la riduzione dei costi del 20% (venti!) chiesta dalla compagnia telefonica. In un attimo Comdata è entrata in crisi, è partito il FIS (la cassa integrazione dei telefonici), sono rimasti a casa centinaia di interinali. E successivamente, anche accettando l’abbattimento delle tariffe, TIM non è tornata ai volumi di chiamate precedenti. Questo è il mistero dei flussi telefonici, imprevedibili, variabili fino al parossismo: un giorno arrivano mille chiamate e il giorno dopo solo qualche decina. Non perché le persone non chiamino il 187, ma perché è il cliente TIM a dirigere il traffico a suo insindacabile giudizio. Così le Comdata di turno, il giorno che le chiamate non arrivano nel numero programmato, iniziano a chiedere agli operatori se non vogliono prendere qualche ora di ferie … insomma andarsene a casa, perché non si può stare in ufficio senza rispondere al telefono, come se la colpa fosse dei lavoratori, come se non si potessero pianificare attività di formazione oppure di gestione dello stress della chiamata, ad esempio, per occupare i dipendenti.
Si deve ripensare al funzionamento dell’intero settore dei call center
Purtroppo né in Italia né in Europa è in corso una seria riflessione sulle condizioni di lavoro in questo settore, non percepito a sufficienza come usurante e alienante.
Non è in corso un ragionamento sul costo umano che si paga per aver spostato i servizi alla clientela dagli uffici o negozi al telefono, dell’aver creato un sistema commerciale dove chi non ha un numero verde non esiste. Qual è il saldo fra costi e benefici in termini di dignità del lavoro e qualità della vita? Un saldo negativo. Un bacino di migliaia di lavoratrici e lavoratori precari e sottopagati, tenuti sotto pressione da team leader (spesso una sorta di moderni kapò, ovvero uno degli oppressi che ha guadagnato funzione di controllo) che camminano fra le postazioni incitando a “chiudere! chiudere!” (la telefonata), e magari l’operatrice di turno è già in difficoltà perché l’utente è imbufalito e spesso ha ragione (ma non glielo si può dire…). E intanto i secondi scorrono e l’operatore se sfora rischia il richiamo. E se il suo tono non è da “mulino bianco“, rischia il richiamo. E se cerca di far valere qualche ragione, almeno con il suo team leader che fino a ieri era uno di loro, rischia il richiamo. E vive tutto questo in solitudine. Chiuso nel suo piccolo box, cuffia in testa, testa bassa, pause brevi, giusto il tempo per una pipì, una sigaretta, un morso a un panino. Niente solidarietà di gruppo. Niente sostegno sindacale … Ecco! Siamo giunti al punto nevralgico. Il sistema è tiranno. Il padrone è tiranno. Ma il sindacato è piatto. Ha abdicato alla sua funzione, non ha saputo costruire forme di lotta per rompere le catene che fanno ammalare di ansia, di timore di perdere il lavoro per un tono sbagliato o per la pazienza che rischia di finire da un momento all’altro.
L’azione sindacale non è adeguata alla situazione
Nell’esperienza eporediese, in Comdata, questa debolezza è palese, come pure la mancanza di volontà di cambiare dal un lato (sindacati) e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti e condizione dall’altro (lavoratori). Nemmeno quando in Comdata sono arrivati i lavoratori di Innovis cresciuti nel settore metalmeccanico, quello che ancora pratica la resistenza e mobilitazione, e i loro delegati FIOM (ammessi nella Rappresentanza Sindacale Unitaria in virtù dell’accordo di passaggio di Innovis in Comdata ma solo fino a dicembre 2018) con la loro forza di azione, è cambiato qualcosa per la disabitudine delle altre sigle a porsi veramente come controparte nei rapporti con la proprietà.
Così tutte le preoccupazioni, tutto i disagio e malessere delle lavoratrici e lavoratori di Comdata, rimangono sulle spalle di chi le vive, come fosse un problema individuale, anche per la difficoltà di parlarsi con quei ritmi e organizzazione del lavoro e per la disillusione sul poter cambiare lo stato di cose. Solo una voce sindacale si è fatta sentire su questo tema, è quella della Cobas Comdata Torino (ad Ivrea non hanno partecipato alle elezioni della Rsu) nel loro ultimo volantino dal titolo “Lo stato di salute del front-end“, leggiamo “è emersa una condizione di malessere diffuso, dovuto allo stress cui sono costantemente sottoposti i lavoratori. In questo contesto, quelli maggiormente colpiti sono i colleghi e le colleghe impiegati nel front-end, molti dei quali hanno denunciat le pressioni esercitate dallo staff, spesso con metodi e toni inaccettabili in quanto lesivi della dignità degli stessi. L’intervento della RSU ha fatto sì che i toni si siano smorzati per lasciare il posto a forme di pressione meno palesi, ma altrettanto inaccettabili” e ancora “A ciò si devono aggiungere le difficoltà derivanti dall’utilizzo di strumenti di lavoro ormai obsoleti e poco funzionali che rallentano ulteriormente i processi e, non ultima, la continua esposizione allo stress che è propria di questa tipologia di lavoro a contatto con il pubblico. La Confederazione Cobas dice ancora una volta No al profitto sulla pelle dei lavoratori, auspica una maggiore attenzione alla salute dei lavoratori da parte dell’azienda e si riserva di mettere in atto tutte le contromisure previste qualora ciò non avvenisse.“.
Perché ad Ivrea tutto tace? Non bastano le rivendicazioni (non si sa quanto efficaci) fatte ai tavoli degli incontri con l’azienda, occorre denunciare anche all’esterno le condizioni di lavoro di questi lavoratori e lavoratrici. Potrebbe anche servire a smorzare l’aggressività, ormai sempre più in crescita ovunque, che in tanti, troppi, riversano sugli operatori dei call center, dimenticando che sono i nostri figli, cugini, vicini di casa, nipoti, amici … Almeno a Ivrea chi non ha un amico o parente che lavora con le cuffie sulle orecchie? e non per ascoltare musica…
Cadigia Perini