Tra due mondi: il film di Carrére al Cineclub

Nuove schiavitù in forma di lavoro

Ci sono giornate che si sottraggono all’abituale routine, che cambiano il passo alle ore, che preludono e mettono insieme fatti dal sapore drammatico.
Ho deciso di ritornare al Cineclub, di ridotarmi di tessera dopo la lunga pausa dovuta alle restrizioni pandemiche. Eh sì perché, altrimenti, le abitudini sospese tendono a smarrirsi definitivamente, come risucchiate nel limbo della pigrizia. Così attendo che la mia consorte ritorni a casa, prima di recarmi con lei allo spettacolo delle ore 18. Il film in programma al Boaro è dello scrittore francese Emmanuel Carrère e si intitola: “Tra due mondi”. Quando rientra, la consorte è visibilmente scossa, l’espressione in frantumi, perché ha appena assistito al passaggio di un’auto che ha travolto e ucciso, senza fermarsi, il gatto della nostra vicina. Il gatto è rimasto sull’asfalto in preda a quelle convulsioni muscolari che precedono la fine imminente. Sotto il suo corpicino di pelo nero, sulla strada vicino al nostro cancello, si è allargata una macchia di sangue rosso bruna. La vicina, prontamente avvertita, non se l’è sentita di venire sul posto, ma ha messo a disposizione una coperta che la consorte ha usato per avvolgere il micio e portarlo a casa sua. Dopodiché, nelle nostre menti sono rimasti fissi gli occhi gialli del gatto, come sgranati di stupore, così come li notavamo ogni volta in cui si affacciava sul nostro cortile.
Nonostante lo stato d’animo non idoneo, quasi per reazione, abbiamo deciso di recarci lo stesso al cinema, sintonizzando l’umore già molto compromesso sul tono altresì drammatico del film. La vicenda, messa in scena da Carrère, è liberamente tratta dal romanzo “Le Quai de Ouistreham” di Florence Aubenas e si incentra sul tema del lavoro non solo precario, ma anche marginale e dequalificato, quello più umile, che oggi, nei tempi sfavillanti della modernità tecnologica è riservato ai nuovi schiavi tuttofare, quelli che senza alcun potere contrattuale, affrontano orari e turni massacranti pur di racimolare l’indispensabile.
Naturalmente, nella nuova giungla del lavoro, il posto precario te lo devi sudare e guadagnare, magari seguendo un corso a pagamento che ti dia le dritte necessarie per dare risposte convincenti, durante il colloquio di assunzione.
Tra le cose preliminari da imparare c’è quella di bandire il termine “disoccupato”, che ha accezione
negativa, a favore del più attuale e consono “in cerca di lavoro“. Occorre dimostrare di meritarselo il posto, di distinguersi nella nutrita concorrenza dei disperati che, come te, ambiscono a un salario che, seppur da fame, salvaguardi almeno il senso di onestà e il diritto al decoro. Siamo dunque all’universalizzazione del tanto vituperato modello americano che, ciò nonostante, continua ad imporsi e diffondersi, il modello che incoraggia la volontà di farcela ad ogni costo e che non fa sconti sulla realtà. E così, con buona pace di ogni organizzazione dei lavoratori, l’esercito dei richiedenti lavoro accetta l’inaccettabile, spremendosi anche nella fatica di pulire gabinetti cloaca e rifare stanze, a tempi di cottimo, su qualche traghetto in arrivo o in partenza.
E con questa vita, si dice addio al tempo libero e anche alla gestione della casa e anche dei figli che segui come puoi e quando puoi. Ovviamente, perché tutto fili liscio, devi ottemperare sempre allo slogan di riferimento, che misura
il gradimento verso il tuo lavoro davanti al prossimo e che si articola in questa sigla: S.B:A:M. (Sourire, Bonjour, Aurevoir, Merci). Nel film, c’è anche la traduzione in italiano della sigla, tanto per non lasciare adito a dubbi. In questo contesto di precariato a ritmi forzati, si stringono comunque legami di solidarietà soprattutto tra le donne e anche con qualche pari grado maschile che, nonostante abbia macellato animali come mestiere, rivela modi gentili e un’apprezzabile capacità di seduzione. Questo per riaffermare un principio che, seppur in sospetto di luogo comune, vede risiedere umanità e sensibilità soprattutto nei ceti meno abbienti. Marianne, la protagonista della storia, interpretata da una fulgida Juliette Binoche, sempre all’altezza del binomio fascino e bravura, si cimenta nel lavoro delle pulizie al pari delle altre donne colleghe di cui finisce per ammirare lo spirito di abnegazione. Nel gruppo si sviluppa gradualmente una vera amicizia fatta di collaborazione e piccole cose ricche di grazia e delicatezza. I fatti minimi del quotidiano popolare consentono scampoli brevi, ma intensi, di gioia autentica. E il film si gioca proprio sul concetto di autenticità in quanto Marianne dissimula e nasconde la sua vera identità che, comunque, non tarderà a rivelarsi.
Infatti quando si scopre che Marianne è una scrittrice sotto
mentite spoglie, che stura i cessi solo per toccare dal vivo la realtà di cui vuole scrivere, la delusione
delle compagne è totale. Ad arrabbiarsi duramente, e a sentirsi tradita, è soprattutto Christèle, che
Marianne prediligeva nell’amicizia e che aveva identificato, per la spiccata personalità, come la protagonista ideale del suo libro. Il film è molto interessante perché contrappone figure e personaggi di mondi apparentemente
imparentabili, che cercano di integrarsi senza riuscirci. Marianne, nonostante l’affetto sincero maturato per le colleghe, una volta terminato il libro, dismesso il grembiulone da lavoro e accantonati guanti e detersivi, torna al suo vero mondo, abbandonando quello sperimentato solo temporaneamente.
E la cosa lascia uno strascico di
amarezza nelle colleghe, nonostante il libro accenda il faro dell’attenzione sulle condizioni intollerabili dello sfruttamento subito da queste lavoratrici. Al collo di Marianne resterà una collanina con un trifoglio a quattro foglie, portafortuna di cui Christèle le aveva fatto dono, unico segno tangibile e simbolicamente aggregante dei due mondi raccontati.
Io non credo però che nel finale del film, un finale da colpo di genio, Marianne si sarebbe
comportata così. Credo che la scrittrice Marianne sia diventata veramente una donna delle pulizie anche nel suo “essere” e che le sue due parti (scrittrice e pulitrice) si leghino insieme per la vita in una nuova forma di autenticità. A tenerle separate forse è solo lo scrittore e regista Carrére che, nel personaggio di Marianne, probabilmente vede soprattutto se stesso. In ogni caso esco dal cinema e riassaporo vecchie sensazioni trascurate da tempo come poter discutere del film con qualche amico nei paraggi. Questo è il bello del Cineclub, il bello del cinema che ti smuove da casa, il bello delle storie che, inviando messaggi dal grande schermo, fanno discutere e ragionare. Un ritorno al cinema che, almeno parzialmente, consente a sottoscritto e consorte di mitigare leggermente il dispiacere per quell’amico felino, dagli occhi di luna, ora in viaggio nell’abbraccio lunghissimo di una notte mai così nuova.

Pierangelo Scala