Gli eventi del G8 sotto la luce del presente, il presente sotto la luce del G8
Il 20 luglio, esattamente vent’anni fa, durante gli scontri in piazza Gaetano Alimonda, viene ucciso Carlo Giuliani, giovane manifestante armato di estintore vuoto. Quest’ultimo oggetto, così comune nella vita quotidiana di ognuno, diventerà ben presto feticcio e punto di partenza del successivo scontro culturale tra le tante letture che di quei giorni verranno date. Una battaglia che si protrae ancora oggi, uno scontro culturale sulla memoria di un evento e sul suo significato.
Non vi è l’intenzione in questo articolo ripercorrere ogni passo di quei giorni, proposito non solo impossibile a meno di non voler scrivere un libro, ma anche tutto sommato poco utile: chi ha voluto o ha sentito la necessità di informarsi sui fatti di Genova 2001, l’ha potuto fare in questi vent’anni, nei quali sono stati prodotti innumerevoli materiali e scritti, soprattutto grazie ai testimoni diretti che ancora oggi non smettono di raccontare come siano andate le cose, proteggendo una memoria e un significato di quegli eventi dalle tante riletture e mistificazioni tentate negli anni.
Quello che possiamo fare è rileggere il tutto alla luce di ciò che è avvenuto di lì in poi, negli ultimi vent’anni, poichè gli eventi del G8 di Genova 2001 furono la chiave di volta di molti fenomeni che avremmo visto svilupparsi di lì in poi.
Cosa abbiamo imparato, se abbiamo imparato
Sicuramente assunsero il comodo ruolo di “peccato originale” per tutte le proteste di piazza seguenti: la tattica del blocco nero, ancora oggi erroneamente definita nel linguaggio dei media “i Black Bloc”, aleggia come un fantasma sopra qualsiasi mobilitazione giovanile ed è alla base della successiva spaccatura tra buoni e cattivi, violenti e pacifisti, moderati e radicali che partendo dai movimenti di piazza si espande a tutta la sinistra più o meno istituzionale. Un fenomeno che ha origini ben più antiche del G8 di Genova, ma che da lì in poi ha subito un’accelerata portandoci oggi a un fenomeno che potremmo definire balcanizzazione del dissenso, con tanti piccoli gruppi che si accusano vicendevolmente di troppa o troppo poca radicalità. Paradossalmente però, il caos e la brutalità della polizia durante il G8, al posto di dissuadere dal compiere azioni violente, hanno reso la tattica del blocco nero qualcosa di ormai immancabile nelle proteste di piazza più concitate: chi era presente vent’anni fa ha potuto vedere come chi manifestava in modo più pacifico abbia finito col subire le violenze peggiori, mentre chi era preparato al caos è spesso riuscito a tornare a casa con le proprie gambe, conservando un minimo di vantaggio tattico.
Tutto ciò ha finito con l’essere alla base del bipolarismo oggi presente a sinistra tra i cultori della protesta violenta, che giudicano inconsistente qualsiasi forma di azione pacifica o lontanamente istituzionale, e i fautori della non violenza, pronti a spendere più energie nel distanziarsi dai propri vicini radicali che dalla destra moderata.
Da Indymedia a George Floyd, le potenzialità dei media e la narrazione dal basso
Non tutto ciò che è uscito dalle proteste di vent’anni fa ha creato spaccature: un movimento dal basso raccontò in tempo reale cosa stava succedendo tra il 19 e 22 luglio del 2001 a Genova. Il sito web Indymedia Italia permetteva a tutti di pubblicare anonimamente un post, fornendo aggiornamenti e comunicando dettagli organizzativi. Questo permise di fornire una copertura di un evento dal basso, dalla parte dei perdenti di quei giorni, permettendo in seguito di realizzare anche un primo video-documentario sugli abusi della polizia, passati sostanzialmente sotto silenzio dai giornali nazionali.
Tutto questo in un’epoca in cui a Internet si poteva accedere solo dal computer e nessuno aveva uno smartphone in tasca per riprendere una scena. Questa forma di attivismo sarebbe cresciuta negli anni, di pari passo con il progredire delle tecnologie di comunicazione, fino ad arrivare al filmare con i telefoni i casi di abusi delle forze dell’ordine: il filmato della morte di George Floyd, il caso più famoso di questo tipo, ha dato vita a un movimento internazionale di protesta. Darnella Frazer, la ragazza che ha ripreso la scena quel giorno, è stata premiata con un encomio speciale dal comitato dei premi Pulitzer. Quei pochi minuti di video ripresi da una ragazza qualsiasi per strada hanno avuto un effetto dirompente, portando addirittura all’interno del dibattito politico americano una proposta impensabile: togliere i fondi alla polizia per reinvestirli in scuole, ospedali e servizi.
Da Bolzaneto a Maria Capua Vetere, da Giuliani a Cucchi.
Parlando di forze dell’ordine invece, non si può dire che in Italia si siano fatti dei grandi passi avanti: il reato di tortura, del quale si iniziò a parlare seriamente dopo il G8 di Genova, è stato introdotto solo nel 2017 e viene ritenuto insufficiente da diverse associazioni che si occupano di diritti umani. In nemmeno cinque anni dall’introduzione, il reato di tortura è stato contestato diverse volte: una prima condanna al carcere di Ferrara, dieci agenti condannati nel carcere di San Gimignano, i carabinieri della caserma “Levante” di Piacenza, 25 indagati tra la polizia penitenziaria del carcere Lorusso e Cotugno, dieci nel carcere di Sollicciano, 52 agenti raggiunti da misure cautelari nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
A questi sarebbero da aggiungere gli innumerevoli casi documentati di abusi quotidiani più o meno gravi compiuti dalle forze dell’ordine in servizio, troppi per enumerarli tutti, i morti nelle caserme, nelle questure e nelle carceri, spesso in circostanze poco chiare quando non effettivamente frutto dell’azione degli agenti. Senza scomodare i vari Cucchi e Aldrovandi, episodi molto conosciuti ma lungi dall’essere casi isolati, quanti casi di suicidio avvengono nei Cie e nei penitenziari? Come possiamo, sapendo tutti i casi di abuso venuti alla luce nonostante il palese tentativo di insabbiamento anche ai piani alti, fidarci ancora dell’istituzione delle forze dell’ordine così come sono?
E mentre la versione delle “mele marce” diventa via via più inconsistente e il “sempre dalla parte delle forze dell’ordine” somiglia sempre più a “ci piace quando la polizia vi massacra”, la natura sistemica e istituzionalizzata della brutalità poliziesca si palesa a chi non osservi la realtà col paraocchi o in malafede.
Amnesty International descrisse i fatti del G8 di Genoa “una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente”. Vent’anni dopo, in seguito alla pubblicazione dei video della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sempre Amnesty definirà questi eventi come “una nuova Bolzaneto”. Insomma, se i fatti di vent’anni fa hanno cambiato chi c’è stato, sicuramente non si può dire lo stesso delle forze dell’ordine, rimaste sostanzialmente inalterate.
Proposte per migliorare le cose ne sono state fatte e vengono tutt’ora portate avanti, come la campagna per il codice alfanumerico sui caschi delle forze dell’ordine, lanciata dieci anni fa. Una misura adottata dalla maggioranza dei paesi dell’Unione Europea.
A vent’anni dalla morte di Carlo Giuliani in quella piazza, colpito da una pallottola e poi investito due volte dalla camionetta dei carabinieri, forse sarebbe ora di iniziare a pensarci.
Lorenzo Zaccagnini