C’è stato un periodo della mia vita in cui anche io ho odiato Vasco. È una fase per qualcuno passeggera, per qualcun altro eterna. Deduco sia essenzialmente per convenienza sociale. Il mio di periodo è durato su per giù quindici anni, dal momento del mio concepimento fino alla festa di compleanno di un compleanno che non era neanche il mio. Era il 2009 se non ricordo male.
Vasco divide. Vasco non puoi affrontarlo con l’indifferenza. Vasco o lo ami alla follia o lo odi profondamente, anche se “odiare” è un termine che proprio non mi piace, lo odio proprio.
Io non so neanche perché neppure mi sforzassi ad ascoltarlo, avevo deciso di stare dalla parte del fronte degli haters giusto perché da giovani adolescenti (qualcuno protrae questa sintomatica fase pseudoanarchica per tutto il resto dei giorni) piace viaggiar controcorrente e schierarsi per il gusto di sentirsi socialmente inseriti.
Ricordo ancora; era uno di quei compleanni stupidi, ridicoli, patetici, che già mi facevano rimpiangere d’avervi partecipato. Trenini, giochi di gruppo, torte alla crema e cioccolato, espressioni di gratitudine per regali comprati all’ultimo minuto solamente per non passare da maleducato e insensibile di turno.
Tutto sembrava così banale, fino a che, nella oceanica solitudine della festa che si svuota, nell’abissale desolazione di carte strappate e bicchieri di plastica vuoti o pieni per metà di bibite gassate fluorescenti, dallo stereo riecheggia un nome, una storia, una voce che pensavo di dover (e poter) detestare per sempre.
“…Sally cammina per la strada senza nemmeno, guardare per terra.
Sally è una donna che non ha più voglia, di fare la guerra.
Sally ha patito troppo, Sally ha già visto che cosa ti può crollare addosso,
Sally è già stata punita.”
Chiudo gli occhi e come in un fiacco lapsus dantesco mi risveglio ventitreenne, e Sally è in tv, la sta cantando lui; sì, lui, che negli anni ho imparato ad amare. Perché la verità è figlia del tempo. Vasco è su Rai1, di fronte a 5,6 milioni di spettatori seduti in poltrona, e di fronte a 230000 spettatori in piedi, sudati dalla calura estiva, in carne ed ossa, lì, a Modena, al ModenaPark. Più di 10 milioni di occhi e orecchie a guardarlo e ascoltarlo e a pendere come fantocci dalle sue canzoni, pietre miliari, volente o nolente, della musica d’autore italiana. Milioni di cuori che battono al ritmo della grancassa e interminabili minuti dedicati a lui, che da quarant’anni a questa parte ha raccolto tutto ciò che con tenacia aveva seminato. Hanno provato ad affossarlo ed ha provato ad affossarsi, ma la verità è figlia del tempo.
Storie che si incrociano. Amori nati e amori finiti. Vite vissute in un battito di ciglia.
La sera prima del concerto a Modena Park, il 30 giugno, finisco di suonare in un locale e tra il bere qualche drink ed intrattenermi con nuove conoscenze si fanno le 3. La titolare chiude il locale, ci caccia via quasi con la scopa, spegne la luce e s’incammina con le due dipendenti fuori dal locale. Chiacchieriamo. Poco dopo sento che si danno un appuntamento: “Alle 6 ci vediamo in autostrada”. Ma, mancano tre ore, penso.
Sì, dopo tutta la fatica di quella sera, dopo aver accolto le esigenze di noi musicisti, ed essersi messe a disposizione di fradici dipsomani, tre ore dopo sarebbero partite per andare a Modena a sentire Vasco.
Così penso che già sei ricco quando anche solo una persona ti vuole bene. Cosa può voler dire che di fronte a te hai 230000 persone che ti vogliono bene, e altrettante a casa che piangono per non essere lì? Può solo voler dire che non ti si può odiare Vasco.
Sei immenso.
La verità è figlia del tempo.
Riccardo Bonsanto