Rubrica CONTRONATURA di Diego Marra
In questo periodo di forzata reclusione la mente spazia e brama luoghi aperti, natura selvaggia, alberi, fiori, animali, montagne.
Beh! Sto parlando della mente del naturalista, altri potrebbero soffrire di “afterhourspenia”, “ravepartypenia” o della penuria di molteplici altre occasioni sociali massive e omologative. Personalmente mal sopporto soprattutto la carenza di sport e d’immersione nell’esplosione primaverile della Natura, fosse anche solo il bosco presso casa.
Se non posso bazzicare fisicamente ciò che più mi dà gioia, posso, però, dedicarmi a voli pindarici che mi trasportano in mondi lontani, conosciuti solo da letture o consultazioni in rete.
Improvvisamente mi sono ritrovato nel deserto del Namib, regione della Namibia che sconfina parzialmente in Angola e Sudafrica, visione evocata da antichi ricordi universitari. Quando iniziai a sfogliare il meraviglioso testo di botanica sistematica, che conservo come una reliquia, fui colpito dalla descrizione di un vegetale dall’aspetto alieno, endemico di quella regione desertica dell’Africa Sud Occidentale: la Welwitschia mirabilis (mi spiace, non ha nome volgare italico).
Neppure sapevo, allora, dove fosse il deserto del Namib e non esisteva ancora Google maps per una rapida verifica. Si tratta di un albero quasi completamente infisso nella sabbia con una lunga radice fittonante, il fusto spunta dal terreno solo per pochi decimetri con una circonferenza che può raggiungere i quattro metri; sui margini superiori sono inserite due o tre foglie enormi, coriacee, nastriformi, lunghe fino a cinque metri, striscianti sulla superficie; queste hanno una crescita illimitata, progressivamente seccano all’estremità, si sfilacciano, ma sono continuamente rigenerate alla base conferendo alla pianta l’aspetto di una grande matassa di nastri verdi larghi quasi mezzo metro.
Ma come può un vegetale crescere in uno dei luoghi più aridi del mondo dove praticamente non piove mai? È un esempio d’incredibile capacità adattativa della vita. La Welwitschia mirabilis vive in una ristretta fascia di 20-60 km dalla costa atlantica e sfrutta la notevole escursione termica tra il giorno e la notte per cui le correnti d’aria umida marina, spiranti verso l’entroterra, formano nebbie notturne che si condensano in goccioline d’umidità le quali si depositano dappertutto, evaporando però, durante il giorno. La natura porosa delle foglie permette l’assorbimento dell’acqua che vi si deposita fornendo la maggior parte dell’umidità necessaria alla vita della pianta. Se le nebbie persistono per un lungo periodo, il vitale liquido riesce anche a penetrare nella sabbia e a raggiungere le lunghe radici.
Un’altra caratteristica di questo incredibile albero (sì è un albero anche se possiede un tronco ridotto) è la grande longevità: analisi effettuate tramite l’esame del carbonio 14 hanno svelato che molte di esse hanno più di duemila anni. La più grande conosciuta è stata denominata Big Welwitschia, raggiunge un’altezza di 1,40 m e un diametro di 4 m. Il nome generico deriva da Fiedrich Welwitsch, botanico austriaco che per primo ne rese nota l’esistenza in Europa.
Welwitschia mirabilis è considerata un “fossile vivente”, in quanto unico rappresentante oggi esistente del suo gruppo sistematico.
Sappiate che per incontrare questo straordinario vegetale non è indispensabile recarsi nel deserto del Namib, viaggio costoso e scomodo, potrete comodamente vederlo con una gita a Napoli: nell’orto botanico all’interno della reggia borbonica di Portici prosperano, grazie al clima mite e al fertile terreno vulcanico, alcuni esemplari che riescono anche a riprodursi.
Capisco la vostra impazienza nel visitare tale meraviglia vegetale, ma temo che dovrete attendere la fine di questo gravoso periodo di reclusione, De Luca permettendo.
Diego Marra