Questa piccola rubrica, senza troppe pretese, ambisce all’obiettivo di rendere tutti un po’ più partecipi della storia contemporanea di questa città, troppo spesso considerata irrilevante o povera di note degne di essere ricordate
Nel parlare di “eccellenze canavesane” si è soliti riferirsi a moderni scienziati, ingegneri o imprenditori: uomini e donne brillanti che hanno avuto modo di elevare “orgogliosamente” la reputazione del territorio al di qua della Serra Morena. Eppure, anche sul piano storico e politico Ivrea ha conosciuto alcune “eccellenze”, tra le quali spicca indubbiamente la figura di Pietro Quendo.Pochi di voi l’avranno sentito nominare, in quanto si hanno, purtroppo, scarse informazioni a riguardo, alcune delle quali confluirono in un vecchio numero (anno 1974) della rivista “il Piffero”.
Ma chi fu questo signore?
Pietro Quendo fu un canavesano arruolato nell’Armata Rossa, partecipe della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, nonché personale conoscitore di Kerenskj, da Quendo stesso descritto con queste parole: «Io ero l’ultima ruota del carro, ma ho conosciuto Kerenskj perché facevo parte dell’Armata Rossa: un pallone gonfiato che faceva dei bei discorsi e vestiva una bella divisa; nulla di più».
L’eccentrico e riservato signor Quendo, dal carattere burbero, riservato sul suo passato eccetto che con quelle persone che gli infondevano simpatia e benevolenza, era nato al “Berciot”, una frazione di Frassinetto. Suo padre era socialista militante, amico di Treves ed era stato in galera per i moti di Milano del 1898. Nel 1904, all’età di 11 anni, dovette seguire il padre in Russia, dal quale apprese il mestiere di calderaio e battilastra. Sempre assieme al padre lavorò alla manutenzione della ferrovia transiberiana, lavorando 10-12 ore al giorno per una paga di 5 rubli quotidiani (suo padre 20).
Nella vivace intervista rilasciata alla rivista “il Piffero”, Quendo usa queste parole: «Caso mai ne parli quando io sarò via, e dica pure che Piotr Quendo, canavesano autentico, la Rivoluzione Russa lo ha sorpreso a Omsk, in Siberia, a 24 anni e che ha combattuto per una causa che riteneva giusta e necessaria. Lei [l’interlocutore dell’intervista, anonimo, ndr.] dice macello, ma io dico un bagno di sangue da entrambe le parti, perché ricordo che sovente si arrivava in paesi dove erano passati gli altri e si trovava che tutto era stato messo a ferro e fuoco; dica pure macello, ma ricordi che è stato macellato il dispotismo, l’autocrazia, la forza bruta, l’ignoranza, soprattutto l’ignoranza, per far posto alla ragione che è il pacifico sviluppo del pensiero, delle facoltà umane, che è il libero svolgimento delle leggi naturali per cui l’umanità va migliorando».
Un lavoratore, un uomo di mondo, un rivoluzionario e, a sentire le sue parole, anche un intellettuale militante, di quelli d’altri tempi che si servivano sia dell“arma della critica” che della “critica delle armi”. Un vero peccato non aver di lui altre notizie e che abbia lasciato così poche informazioni ai posteri.
Non conosceremo mai fino in fondo le sue avventure, i suoi racconti o i suoi pensieri; in altre parole non conosceremo mai approfonditamente la sua storia, ma forse è quello che avrebbe voluto. Non a caso, nell’articolo del Piffero, Quendo si congeda con il suo interlocutore con queste parole: «Già, la storia…, ma sa come Voltaire ha definito la storia? Una burla che i vivi giocano ai morti…».
Andrea Bertolino