Intervista alle volontarie della Casa delle Donne d’Ivrea sulla situazione della violenza di genere nel nostro territorio
Non accenna a diminuire il numero dei femminicidi che dall’inizio del lockdown si susseguono in Italia ad una velocità allarmante, tanto da aver raggiunto il terrificante record di un caso a settimana dall’inizio del 2021. Le pagine di cronaca dei giornali (nazionali e locali), ormai intasate da episodi di violenza di genere sempre più raggelanti, ci costringono a fare i conti con una società che si rivela meno progredita di quanto amiamo ammettere.
La Casa delle Donne di Ivrea, presente dal 1989, è un luogo di supporto per le donne in difficoltà. AlzatiEva, lo sportello di ascolto antiviolenze, è rimasto attivo (pur con i limiti imposti dalla pandemia) anche durante il periodo di lockdown, monitorando la situazione locale e fornendo aiuto a donne vittime di violenza. Abbiamo chiesto loro* di aiutarci a rispondere a un po’ di domande per farci un’idea più chiara della situazione.
I dati sono davvero così preoccupanti anche qui?
Sì. Nel solo 2020 allo sportello di Ivrea risultano 35 segnalazioni da donne vittime di violenza. Poi altre 5 nel solo gennaio 2021. Altre 2 nella prima settimana di febbraio. Gli episodi più recenti li possiamo trovare nei quotidiani locali. È un dato in linea con l’andamento nazionale: non si tratta di un semplice aumento dei casi, ma di una crescita esponenziale, una curva che tende ad andare sempre peggio. L’aspetto più tragico è che questi sono solo i casi noti, non possiamo sapere quanti episodi accadano senza che nessuno lo venga a sapere.
Esiste uno “stereotipo” di donna vittima di violenza? È vero che accade più spesso nelle fasce sociali più disagiate?
Nì. Comprensibilmente esistono delle percentuali diverse. Parlando a livello locale, allo sportello si rivolgono donne provenienti da Ivrea città, dal Canavese e dalla Valle D’Aosta. Circa il sessanta per cento ha tra i 40 e i 70 anni e/o sono di nazionalità italiana. Sono la maggioranza, ma sarebbe sbagliato pensare che non accada ad altre fasce d’età o nazionalità, perché è un fenomeno endemico e trasversale. Anche lo stereotipo per cui la violenza di genere accade maggiormente nelle fasce a basso reddito è scorretto: non varia di numero, ma può variare qualitativamente, concretizzandosi in abusi di natura non fisica più difficilmente identificabili come violenza e quindi meno facili da denunciare. Per quanto il disagio economico incida, il vero problema è culturale.
Quanti e quali tipi di violenza non fisica esistono? Quanto e quando sono preoccupanti?
Primi fra tutti il bisogno di controllo e la gelosia maniacale. Il senso di possesso, di controllare cosa fai, con chi sei o come ti vesti insomma. Quello è sempre un segnale d’allarme. In secondo luogo la violenza economica, il controllo totale di quanto puoi spendere e in cosa, con i soldi usati come ricatto. Infine svalutazione verbale, instillazione di sensi di colpa o l’ignorare volontariamente i bisogni dell’altro possono essere violenza non fisica. Questi non sono preoccupanti se sono casi isolati, ma lo diventano se inseriti in una dinamica continuativa e sempre uguale, che è poi quello che logora davvero la mente anche nei casi di violenza domestica.
A volte facciamo fatica a comprendere come una persona possa arrivare fino a questo punto, come si possa accettare di vivere in situazioni pericolose persino per la vita, senza riuscire a fuggire nè a reagire. Come accade?
La verità è che la violenza di genere porta a questo non per il singolo atto in sé, ma per il ciclo che inesorabilmente segue: prima c’è tensione, la tensione sale fino a che l’uomo ha l’esplosione violenta di rabbia, al che segue un tentativo di riappacificazione dove si minimizza e si condividono le colpe, quindi si finisce con la fase chiamata “luna di miele”, dove l’uomo si dimostra pentito e gentile e porta la donna in palmo di mano. Peccato che questa fase duri poco, presto la tensione tornerà e si ripeterà tutto da capo. Questo porta la donna, che comunque prova un qualche tipo di affetto verso l’uomo, a non capire più che persona si trova davanti. In questo si aggiungono il retroterra culturale del ruolo femminile cosiddetto di cura, spesso interiorizzato dalla donna, e l’abitudine dell’uomo violento a fare attorno alla donna terra bruciata, allontanandola da tutti. La confusione e la fragilità di lei continuano a crescere con il protrarsi delle stesse fasi, la cui ripetizione si fa via via più veloce. Fino a che non crolla, arrivando anche ad accettare di poter essere uccisa.
Quanto è importante il piano culturale nel prevenire questo tipo di violenze? Come si può migliorare da questo punto di vista?
Proprio perché è un problema così culturalmente radicato (basta vedere quanto la percezione cambia tra paesi, popoli e nazioni diverse), il piano culturale è il vero campo in cui agire. Intanto dovrebbe esserci un radicale cambiamento dal punto di vista dell’educazione sessuale ed emotiva dei ragazzi, proprio per scardinare la cultura del possesso che sta alla base della violenza di genere. Poi bisognerebbe insegnare, oltre che ad amare gli altri, anche ad amare sé stessi e la propria persona, in modo da non far dipendere la propria felicità da un partner da controllare ossessivamente o da uno che finirà con l’abusare di noi. Nella scuola si può fare molto, perché a differenza del mondo del lavoro si è ancora abbastanza alla pari tra uomini e donne finché si è studenti. Ovviamente la cultura si trasmette per lo più in famiglia.
Cosa fare quando veniamo a sapere di una situazione di violenza familiare vicino a noi? E se invece la vediamo accadere per strada?
L’importante è intervenire. È vero che bisogna valutare le situazioni, capire se e come mettersi in mezzo con i mezzi che abbiamo, quanto è rischioso anche per noi oltre che per lei, pur consapevoli che non sarà un vostro intervento a peggiorare o migliorare la quotidianità. Ovviamente è meglio portare la donna a rivolgersi personalmente a strutture adeguate o polizia piuttosto che fare noi stessi una denuncia mettendola ancora di più in difficoltà. Ma nel pratico spesso la denuncia non cambia nulla, né peggiora né migliora la situazione, che ormai è troppo radicata e fuori controllo. Detto questo è sempre meglio intervenire, sia come società che come singoli: si sentono già troppe storie di violenza con passanti che guardano dall’altra parte. Fa parte della cultura del possesso anche questa indifferenza verso le dinamiche di coppia altrui, viste come fatti privati in cui non sta bene intromettersi.
Che responsabilità hanno le donne nel perpetuarsi della cultura del possesso e delle violenze di genere?
Intanto va detto che è un tipo di cultura che di solito si “eredita”, sia per le donne che subiscono abusi che per gli uomini che li compiono. Ognuno vive come normale la propria infanzia e tende a ripetere i comportamenti che apprende. Così passa di madre in figlia e di padre in figlio. Poi ci sono i fenomeni di giudizio e colpevolizzazione delle altre donne e di copertura delle violenze. Infine ci sono i casi di violenza di genere inversa, dove è la donna a portare avanti comportamenti di violenza verso un partner o ex partner uomo, interessanti perché dimostrano una cosa: che la cultura maschilista del possesso non si lega necessariamente a un genere. Ovviamente sono nettamente di meno rispetto alle violenze maschili nei confronti delle donne, di nuovo a causa di un fattore culturale e della società patriarcale in cui viviamo, non certo per fattori biologici.
E i centri per uomini maltrattanti? È possibile immaginare un’altra possibilità per questi uomini?
Come già riportato in precedenza la cultura del possesso si trasmette, è facile che gli uomini violenti siano stati bambini che han subito violenza, crescendo immersi in questo ambiente: insomma violento ci si diventa non ci si nasce. Un percorso formativo e terapeutico per questi uomini è possibile, ma questi centri funzionerebbero meglio se fossero maggiormente considerati pubblicamente. Sono davvero utili quando sono un servizio che va in coppia con il nostro. Al di là del nostro giudizio individuale, è un servizio di prevenzione del danno ed è utile in quanto tale. È preferibile un servizio compassionevole con questi uomini rispetto a una donna rimasta con loro per compassione.
Lorenzo Zaccagnini
*Le risposte alle domande sono una sintesi di diverse interviste svoltesi con le volontarie della Casa delle Donne di Ivrea, che ringraziamo.
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