Ci sono scrittori o scrittrici che riescono ad annusare i tempi e a farsi guidare da questa particolare capacità nel loro scrivere. Uno di questi è sicuramente Don DeLillo, uno dei massimi esponenti della letteratura contemporanea statunitense (Rumore bianco, Libra, Underworld, L’uomo che cade, Zero K, per citare alcuni dei titoli più noti). Quando DeLillo pubblica un nuovo lavoro ha risonanza sulle riviste di tutto il mondo, l’ultimo si intitola The Silence (Il silenzio, ed. Einaudi). Nella versione originale in inglese, reca il sottotitolo “a novel”, cioè, un romanzo, diremmo noi in italiano: strano volerlo sottolineare, anche perché in questo caso sarebbe stato più corretto, usare “un racconto”, vista la sua brevità, anzi meglio ancora, forse, “una novella” (“novella” anche in inglese), nel senso proprio del termine, cioè un componimento più breve del romanzo e dedicato ad una sola vicenda. Infatti, il contesto in cui si svolge il racconto, mi ha riportato alla mente il Decameron di Boccaccio e il rapporto tra la parola e la salvezza in tempo di crisi: l’affidarsi al raccontare per affrontare un momento difficile. Il fatto che sia stato consegnato all’editore esattamente all’alba della pandemia, quando tutti noi eravamo sul punto di diventare digitali per forza, avvalora l’idea che la buona letteratura è quella che vede dietro l’angolo. Leggerlo adesso che i nostri occhi sono costantemente incollati ad un monitor è un’esperienza veramente forte.
La vicenda si svolge a New York e ha cinque personaggi: la coppia Jim e Tessa, la coppia Max e Diane e il loro amico Martin, ex studente di Diane, ora insegnante di fisica. Max, Diane e Martin aspettano l’arrivo di Jim e Tessa per guardare insieme la finale del Super Bowl 2022-, quando, poco prima dell’inizio della partita, lo schermo della tv diventa nero. I cellulari non hanno segnale. La corrente elettrica è saltata. All’improvviso tutti i dispositivi non funzionano. Restano solo gli esseri umani nella città buia e apparentemente calma. E si fa silenzio. A quel punto i dialoghi non riescono a focalizzarsi su nulla, le menti sono come annebbiate e incapaci di comunicare, di entrare in connessione in assenza di connessione tecnologica.
La storia ha un’apertura evocativa, nello stile tipico di DeLillo (se vi capitasse di leggere Underworld ne avreste un esempio tra i più luminosi), siamo sul volo Parigi-New York, Tessa e Jim stanno tornando da Parigi. Jim è ipnotizzato dallo schermo posto sopra al sedile in cui è seduto, legge incessantemente, come un automa, tutto ciò che compare sul video, anche se non capisce il francese, lingua nella quale sono scritte la maggior parte delle informazioni. Tessa apre il laptop per scrivere, sta per comporre una poesia. In quello spazio claustrofobico, ognuno è impegnato in un’interazione uomo-macchina molto serrata, quando improvvisamente l’aereo inizia ad oscillare e a perdere quota. Il panico inizia ad offuscare le menti, è difficile riuscire a restare lucidi. L’aereo riesce ad atterrare. Tessa e Jim vengono portati in una specie di pronto soccorso insieme agli altri passeggeri, medicati e poi lasciati andare a casa. La città è semivuota, c’è qualcuno che fa jogging. Arrivano nell’appartamento di Diane e Max, dove già da un po’, la corrente è saltata, ma ancora non si capisce se è un problema localizzato o generale. La città però è al buio.
Nel secondo spazio claustrofobico, l’appartamento di Max e Diane a lume di candela, iniziano una serie di dialoghi in cortocircuito, pensieri senza capo né coda, sproloqui in cui ogni personaggio segue un proprio filo logico. I tentativi di entrare in comunicazione gli uni con gli altri falliscono, il blackout dei cervelli esterni (i dispositivi) genera un silenzio terrificante, al quale non ci si riesce ad opporre, né tanto meno ad arrendere. Jim e Tessa chiedono di potersi riposare un po’, Max continua a stare seduto davanti alla tv improvvisando la telecronaca della partita, pubblicità inclusa, Diane cerca invano di preparare lo spuntino previsto per la fine del primo tempo e Martin, ossessionato dal manoscritto di Einstein sulla relatività ristretta, fa citazioni su citazioni, si inerpica in improbabili spiegazioni su quanto sta succedendo, passando dal cyber-complotto dei cinesi a teorie fantascientifiche sugli extraterrestri e racconta a Diane di un telescopio in Cile.
Non è difficile fare paragoni con Beckett, Pinter o Ionesco, di cui DeLillo raccoglie l’eredità in questo nuovo drammatico inizio secolo, gli ingredienti ci sono tutti: spazi chiusi, comunicazione inceppata, paura, ossessione, tempo sospeso. Ed è proprio attraverso un linguaggio frammentato, sincopato, mutilato, incapace di esprimere il disagio del silenzio tecnologico, che DeLillo ci immerge con immensa potenza nel suo raccontare il presente. E anche, forse, l’immediato futuro. DeLillo, il veggente (così viene chiamato dalla critica letteraria), ha già dato prova di saper guardare e vedere ciò che lo circonda e di saperlo scrivere mentre accade o sta per accadere, in molte sue opere, da Libra in poi. In questa “novella” la peste è finita e la parola sta per essere colpita da qualcosa di assai più grave: il silenzio delle nostre menti elettriche a cui è stata staccata la spina. Non è un caso che venga tirato in ballo il manoscritto di Einstein sulla teoria della relatività, la quale afferma che non esistono eventi simultanei, solo relativi ed individuali, così come individuali sono le reazioni dei protagonisti nell’affrontare quel presente spaventoso. È l’apocalisse? La narrazione non offre spiegazioni sul perché e cosa sia accaduto, né accenna ad un finale, mostra solamente i fili slacciati e scoperti di un grande circuito esploso.
L’intera storia sembra voler trovare la risposta ad una nota frase pronunciata da Einstein: “I do not know with what weapons world war III will be fought, but world war IV will be fought with sticks and stones.” (“Non so con quali armi si combatterà la III Guerra Mondiale, ma la IV Guerra Mondiale si combatterà con pietre e bastoni”) mettendoci in guardia sulla nostra esposizione e sulla nostra estrema fiducia nei confronti della tecnologia, a cui abbiamo ormai dato ampio spazio di manovra nelle nostre vite. In piena ottemperanza al suo compito, la letteratura ci guida, ci aiuta, o almeno prova a raccontarci chi siamo e dove stiamo andando e Don DeLillo, all’età di 84 anni, ha ampiamente raggiunto e guadagnato il titolo di “venerabile” in questo campo. Consiglio a chi riesce di leggere questo libro in lingua originale per poterne apprezzare al meglio la cifra stilistica, che sta nell’uso della lingua, anche se sono certa la traduzione sia ottima. Comunque, sento di raccomandarne caldamente la lettura.
Lisa Gino