Te lo do io il tricolore alla finestra. Cronaca di una clausura

Quando scopri di essere positivo al Covid devi soprattutto cercare di non piangerti addosso come se il mondo fosse ridotto alla tua meschina sorte.
E poi liberare la mente. Dimenticare, rimuovere, cancellare tutto quello che hai “sentito dire”

PRIMO FALSO – “Gli Italiani hanno riscoperto l’unità e la solidarietà”
Ah, le canzoni dai balconi e le bandiere tricolore alle finestre, la grande illusione di vivere circondati da bella gente con la mano tesa e il cuore grande! I videini patriottici che circolavano regalando quel sapore di pace interiore: nulla può abbatterci, siamo Italiani!
Ora, un anno dopo, più il virus si diffonde più le persone sviluppano una paura irrazionale: fuori dalla porta di casa chiusa a doppia mandata c’è l’ignoto, l’altro diventa il nemico, e se scopri che il vicino è stato contagiato sei perfino pronto a minacciarlo di denuncia, affinché non capiti che – magari per buttare la spazzatura – possa infettare il sacro selciato sul quale tutti camminano, pure creature innocenti e giovani figli della Patria! Clandestinità diventa allora la parola d’ordine, camminare rasente ai muri, aspettare la notte per buttare la mondezza, andare a prendere la carta igienica in garage solo con il favore delle tenebre, non fare rumore, diventare ombra, mostrarsi il meno possibile: anche il balcone di casa potrebbe essere fonte di contagio, da lì chissà quali minacce partirebbero.
Ad assecondare l’ostracismo ci si mettono alcuni Comuni – non tutti ma Ivrea per esempio sì – che ti obbligano a sospendere la raccolta differenziata (organico, carta, plastica, ebbene sì: vetro!) e a ficcare tutto in doppia o tripla busta, chiusa con lo spago o lo scotch sempre utilizzando guanti usa e getta (che poi dove li getti se il sacco è chiuso?), manco fosse radioattiva.
Quindi senti lo stigma addosso: tu non sei solo in difetto in un mondo aduso a rimuovere debolezza vecchiaia e morte, sei un pericolo, potenziale fonte di malessere, colpevole portatore di morbo, sei l’anello della catena che non tiene, e sta’ lontano da me. Te lo do io il tricolore alla finestra, casomai lo stemma di famiglia.
Ci sarebbe di che disperare, se gli amici non telefonassero e non andassero a comprarti la frutta fresca. Se altri non mandassero i messaggini con le faccine – e va be’, tutto fa, perfino un whatsappino con emoticon. Sciocchezze? Invece la voce degli altri, una risata e due battute, un consiglio, sono presenza e vicinanza, apertura delle sbarre, contatto con la vita che, altrimenti, tende a concentrarsi attorno al tuo ombelico.

SECONDO FALSO – “E’ un’influenza, o poco di più”
Forse. A volte. Dipende. In realtà il virus – che certo se sei una persona mediamente sana non è la peste bubbonica – è tuttavia infido e vigliacco: per contrastarlo c’è solo santa tachipirina, che davvero allevia tutti i sintomi. Però poi quello, schifoso e viscido, torna: lo senti da un dolore muscolare, da un insistente martellamento alla tempia, dalla temperatura che sale, dagli occhi che dolgono, dalla stanchezza innaturale, da una fitta proprio tra le scapole.
Pensavi di essertene liberato e ti sentivi pronta al mondo – intanto là fuori la primavera ti sbeffeggia –, invece no, non ancora, l’ora della pazienza non è finita. Arriveranno tempi migliori, sì, però sempre dopo.
E allora, se avevi prenotato il tampone di controllo conviene rimandarlo di poco: un risultato positivo e stai a casa altri 10 giorni. Ancora esclusa dal mondo, stigmatizzata da chi mostrifica ciò che lo spaventa, ma – deo gratias – con le arance e le sorprese delle amiche e le loro telefonate vere.

TERZO FALSO – “La medicina di base non funziona”
Invece può funzionare, basta avere fortuna – le ASL non sono tutte uguali e non tutti i sanitari sono attenti –, munirsi del medico giusto, ed è una bella scoperta: nell’ASL TO4 molti medici di base si sono uniti in equipe, si scambiano informazioni e consigli, lavorano anche di notte e anche il sabato e la domenica. E telefonano a casa dei quarantenati, restano in contatto con loro tramite mail, prenotano tamponi, si informano, si occupano senza eccessiva preoccupazione.
Sono la dimostrazione che la malattia si cura anzitutto da casa con attenzione costante e il coinvolgimento del paziente.
Il giorno post tampone è il tuo medico che ti informa e intanto spiega, rassicura, organizza, invia certificati, stabilisce un contatto fatto di chiamate ma anche di un “diario della crisi”. Quel diario che darà per tutto il tempo memoria del percorso, progressi e ricadute, traguardi e sconforti, sospiri e… sospiri: un aggancio con i contorni dei fatti, che altrimenti tendono a sfumare insieme ai giorni della settimana (martedì? o giovedì?).

QUARTO FALSO – “Finalmente un po’ di tempo per leggere e fermarsi a riflettere”
Intanto dipende: se vivi in una casa accogliente, se hai il freezer pieno, se sei dotato di balcone-terrazzo, se puoi metterti in malattia e riposare davvero.
Anche ammesso, però, se il paziente-tipo tende ad autocommiserarsi e a concentrarsi sui propri sintomi, il covidizzato è peggio.
Metà del tempo lo passa a scervellarsi (ciò che non faceva quando aveva l’influenza!) per capire come quando e perché è successo – e dire che io stavo attento, però quel giorno mi ricordo…, certo se non fossi andato…, è stato quando mi sono avvicinato…, ecco: non avrei dovuto… –, l’altra metà la impiega ad autoauscultarsi e interpretare i propri sintomi in base a tutte le brutture che un po’ ovunque ha sentito raccontare: “mio cugino è stato tre mesi in ospedale, e dire che fa pure le maratone”, “il mio amico pensava di essere guarito, ora l’hanno intubato”, “eh, purtroppo il brutto arriva dopo”, “un’amica di un’amica ha sottovalutato i sintomi e non ce l’ha fatta”, “conosco uno che non riusciva a negativizzarsi”…
Così, tutta la serenità del libro e del dolce poltrire si perde tra timor panico e recriminazioni, tra cattivi presagi e temperature corporee, tra soffocante presente e arioso domani.

Finisce il tempo sospeso, resta la percezione di un Paese infantile, fatuo e antipatico, anche se con una medicina di base da salvare.
E poi la necessità di sperimentare cultura e informazione: è l’ignoranza a far paura.
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