Ascoltare Stefano Bollani è ogniqualvolta un’esperienza capace di coinvolgere tutti cinque i sensi.
Che si diletti in seconda serata dopo Vespa su Rai1 o lo si veda dal vivo, il coinvolgimento emotivo non viene abbattuto, e la sua vena di ironia travolge smorzando i momenti clou in cui l’aria si fa più impegnata e musicalmente tecnica.
A Ivrea, Stefano, presso le Officine H, ha portato tantissimi spettatori.
Il concerto, organizzato nella rassegna del Teatro Giacosa stagione 2017-2018, ha avuto luogo domenica 18 febbraio 2018 alle ore 20.45.
Un pubblico composto da un ventaglio generazionale non troppo ampio; purtroppo l’amara verità odierna è la pressoché nulla partecipazione giovanile (talvolta, come qui, non spronata con tariffe agevolate per studenti o under 25). Gli under 25 si potevano contare sulle dita di una mano, di cui la presenza maggioritaria era composta da tredicenni trascinati dalle proprie famiglie. Al che mi viene un dubbio, sarà forse meglio lasciarli a casa, oppure abituarli ad una falsata proiezione dell’ozio? Un po’ come quando a scuola ti costringono a leggere La fattoria degli animali, Il vecchio e il mare o Il cacciatore di aquiloni e non ti resta nient’altro che un brutto ricordo, libri ai quali avvicinandosi in età più matura avresti colto il vero concetto di fondo. E non la repulsione di un compitino scolastico.
Accantonata la parentesi pubblico, Bollani apre lo show in modo intenso, mischiando suoi brani ad altri sudamericani, un andirivieni di movimenti non solo da pentagramma ma anche fisici. Bollani è vivo, si muove sul palco e questo piace al pubblico; quest’ondeggiar lento e sensuale dallo sgabello al pianoforte guadagna ogni volta un applauso.
A momenti di alta musica, vengono altalenati i momenti di grasse risate; una magistrale esecuzione di Sopra i vetri (brano poco conosciuto e difficilmente reperibile, se non in qualità bassa, di Enzo Jannacci) che narra d’un amore perduto, struggente e demente come solo Janancci sapeva essere “I pensieri rincorrono i ricordi come mosche attorno a delle fragole… quante mosche! Solo mosche, nella mia stanza! E, per giunta, non ho neanche il D.D.T.! Me l’hai portato via tu, il mio D.D.T; ne hai fatto un sol pacchetto con questo mio cuor”. La vera sorpresa è l’intonazione di Stefano, chi si aspettava di trovarlo più scanzonato si è preso un bel pugno in faccia.
Altra bella sorpresa è la sua canzone “microchip”, contenuta nell’album “Arrivano gli alieni” uscito nel 2015. La canzone tratta, a suo dire, di nanotecnologia sviluppata nel contesto di Napoli; riassumendo, la storia di un padre che infila un microchip sotto la pelle del figlio per averne il controllo sugli orari della giornata.
Arriva però il momento per cui gran parte del pubblico paga l’ingresso, e lo stesso Stefano lo sa scherzandoci su: il momento del bigliettino.
Messo da parte per un attimo il pianoforte, agguanta carta e penna e chiede al pubblico dieci canzoni che vogliono sentire.
Subito viene fatta una richiesta: Billie Jean, Micheal Jackson. E poi altre come Prince, AC DC, Jeff Buckley, La Cucaracha, Love in Portofino, Ritornerai, George Gershwin…
Nate per essere unite! Esclama, raccogliendo il sogghigno generale. La risata più fragorosa, però, in questo enorme minestrone, in quel che viene definito mash-up, è l’interpretazione buffa di Paolo Conte, in un brano chiamato Copacabana che effettivamente si snoda tra le rime “latin” che potrebbero esser state scritte dall’autore astigiano, rimarcando sempre sul concetto “jazz”. Non ridicolizza o svilisce: sorprende e fa ridere. Quanto basta per essere felici.
Ripropone poi parodie di canzoni anglosassoni, prima in veste della band “Edipo e il suo complesso” e poi nelle strofe sgangherate d’un cantautore toscano che, alle porte di una casa discografica, fa sentire i suoi provini un po’ troppo osé.
Lo spettacolo viene chiuso un po’ come viene aperto, in modo serio e preciso, nell’estasi sviscerata d’un silenzio fantastico. Pochi cellulari a riprendere, tanti occhi a guardare per ricordare: questo lo spirito giusto.
Soddisfatto torno a casa, ripensando sotto ad una leggera pioggia ai ragazzini di tredici anni trascinati dai propri genitori. Il lunedì tornano a scuola e forse neanche racconteranno quella che noi “più adulti” consideriamo una meravigliosa esperienza. Qualcuno di loro sarà obbligato dal padre a suonare il pianoforte controvoglia; qualcun altro di loro, forse, in una remota possibilità, si interesserà veramente.
Entro in casa e accendo la tv, sempre pensando a come mi fossi sentito io nei loro panni, se ciò avrebbe aiutato o meno ad accrescere una repulsione adolescenziale e la veemenza tipica di quegli anni. E qui entra sempre in gioco il ruolo chiave dei genitori, degli insegnanti, degli educatori: qual è la strada giusta? Obbligare, non obbligare, far passare messaggi in sordina, lasciarli fare?
Accendo la tv e su Italia1, alle Iene, c’è un certo SferaEbbasta, idolo, a quanto pare, dei tredicenni. Capelli Fucsia, collane d’oro, capsule copridenti oro e diamanti, aria da decerebrato. Ostentazione del denaro, messaggi sbagliati, sdoganamento della frivolezza.
E penso ancora ai bambini di tredici anni, probabilmente fans di SferaEbbasta, trascinati ad uno strabiliante concerto di un artista incontestabile, un uomo che ha donato la sua vita alla musica, che ha fatto del sacrificio il suo punto d’orgoglio. Uomo di talento, capace di ridere e far ridere. Grande Stefano, uomo dalle cento dita!
Riccardo Bonsanto
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Stefano Bollani: l’uomo dalle cento dita