Se domani tocca a me, se domani non torno, distruggi tutto

Corteo transfemminista a Torino contro stupri, femminicidi, lesbicidi e trans*cidi. Rifiutare la narrazione securitaria sulla violenza, il patriarcato non si sconfigge col manganello.

Ottanta nomi, scritti con i gessetti sulla pavimentazione di piazza Castello. Sono i nomi delle ottanta vittime di femminicidio, lesbicidio e trans*cidio nel solo 2023. Un numero che da solo basta a spiegare l’urgenza di un corteo come quello svoltosi l’8 settembre a Torino, al quale hanno preso parte più di 500 persone.
L’iniziativa è parte di Ti Rissi No!, mobilitazione nazionale lanciata dal movimento transfemminista Non Una Di Meno a seguito dei fatti di cronaca relativi agli stupri di gruppo e Palermo e Caivano. Manifestazioni simili si sono susseguite per l’intera settimana in numerose città italiane, pur nel disinteresse mediatico generale.
Mentre lo spot muscolare targato Meloni rimbalza su tutte le reti, da anni movimenti nati dal basso attraverso reti di solidarietà sono cresciuti in tutto il mondo, diffondendo una lettura politica del fenomeno ed esponendo il sistema patriarcale come origine del problema.
In un’ottica rivoluzionaria nel senso più pratico del termine, ovvero di messa in discussione radicale dei ruoli di poteri, quelli transfemministi sono sicuramente tra i movimenti riusciti con maggior successo a radicarsi in maniera ampia e diffusa.
Partendo dalla condivisione di una problematica vissuta sulla propria pelle come quella degli abusi, dell’omotransfobia e della violenza di genere, unico reato violento in perenne crescita anche nella generalmente tranquilla Europa, il movimento transfemminista è riuscito a dar vita a un proprio vocabolario, una propria letteratura, un proprio sistema di valori contrapposto a quello dominante. Un processo avvenuto non per caso, ma grazie a una lettura fortemente politicizzata della realtà e attraverso la messa in atto di una capillare solidarietà attiva.
Esempi di questo si possono vedere anche nel corteo torinese, che dopo aver percorso via Po si dirige verso il Museo Rai. Qui lə partecipantə estraggono dalle tasche mazzi di chiavi, che iniziano tintinnare sopra il fiume di teste. Il gesto risulta particolarmente familiare alle donne e ai membri della comunità LGBTQIA+. Si usa normalmente per indicare di essere vicini a casa, un gesto solitario che si fa per cercare di proteggersi quando si è solə nella speranza di scoraggiare eventuali violenze. Riproporre la stessa azione in maniera collettiva non solo validifica il gesto come vissuto condiviso, ma lo rivendica attraverso la solidarietà attiva risignificandolo. Non più un solitario gesto di paura, ma una dichiarazione collettiva di mutuo appoggio. Vuol dire “non sei solə”.
Dopo aver fatto risuonare le chiavi, il corteo occupa per un po’ l’entrata del Museo Rai, portando alcuni interventi e un minuto di silenzio per le vittime di femminicidi, lesbicidi e trans*cidi.
Il luogo non è casuale, ma scelto per puntare il dito verso la narrazione tossica dei media, che troppo spesso propone varie forme di giustificazionismo (per le quali stupratori e assassini diventano di volta in volta gelosi, innamorati, folli, malati, mostri o lupi), seziona chirurgicamente la vita privata della vittima o al contrario feticizza la violenza raccontandone in modo ossessivo i particolari morbosi.
Una narrazione funzionale al sistema patriarcale, che non solo spiana la strada a interventi repressivi e reazionari come quello andato in scena a Caivano, ma sottende spesso un velato razzismo, nel caso specifico verso il Sud Italia e le periferie,
Una narrazione che il movimento rifiuta categoricamente, dimostrando una complessità di pensiero avanti anni luce rispetto al discorso politico istituzionale. Non è più polizia nelle strade ciò di cui abbiamo bisogno, ma un investimento serio in aiuti sociali e lotta alle diseguaglianze e un’educazione sessuale e affettiva a più livelli che rifletta sul significato del consenso. Il patriarcato non si sconfigge con un manganello, ma con una grande presa di coscienza collettiva e attraverso uno sforzo culturale volto al suo superamento.
«Ieri ci siamo ripresə le strade della nostra città ed è stato potentissimo – scriverà il giorno dopo la sezione di nudm torinese sui suoi canali – l’abbiamo fatto nell’unico modo che conosciamo, e cioè insieme, con tutto il nostro amore e la nostra rabbia; e questo è solo l’inizio».

Lorenzo Zaccagnini