L’onda emotiva che ci ha travolto nei primi mesi della pandemia, quando eravamo costretti a casa, si è infranta presto sugli scogli di una realtà ossidata. Occorreva uno tsunami per ribaltare il sistema, alimentato da decenni di politiche di tagli, che ha umiliato la sanità pubblica. Con qualche schizzo di orgoglio nazionale invece gli si è fatto solo il solletico.
Un anno fa pensavamo che, come per la Sars e l’influenza aviaria, per citare due malattie epidemiche più vicine a noi nel tempo, la Covid riguardasse solo il lontano sud-est asiatico, e che mai questo nuovo virus avrebbe colpito i nostri sani e solidi paesi occidentali.
Nel giro di poche settimane abbiamo invece dovuto fare i conti con la cruda realtà che ci ha comunicato che non eravamo affatto immuni al nuovo corona virus e che anzi questo si trovava bene e proliferava anche alle nostre latitudini, in tutte le latitudini del mondo.
All’improvviso ci siamo accorti di avere un sistema sanitario malandato. Ci siamo accorti dell’esistenza degli “operatori sanitari”, medici, infermiere e infermieri, Oss, e delle loro condizioni di lavoro. Ci siamo accorti che molti ospedali di territorio erano stati chiusi e che quelli ancora aperti avevano spesso gravi problemi strutturali. Così gli operatori sanitari sono diventati eroi popolari, mentre sono “semplicemente” lavoratori e lavoratrici di un settore molto delicato, che cercano di fare il loro lavoro al meglio. Appartenenti a quel sistema sanitario nazionale spaccato in 20 parti e dato in mano alle regioni, così da avere sistemi sanitari differenti con buona pace dell’uguaglianza fra cittadini. E poi, il colpo finale, trasformati in “aziende” dove la priorità è far quadrare bilanci sempre più ristretti. Salvo accettare contestualmente l’aumento della spesa pubblica verso le strutture private proliferate negli anni come funghi in una giornata di sole dopo la pioggia.
Ma l’indignazione (tardiva) per le condizioni della sanità pubblica, il pentimento (auspicato ma non palesato in verità) per aver favorito la sanità privata anche nei contratti di lavoro collettivo, non han prodotto un risveglio, un shock sufficiente per porre almeno le basi per pretendere e ripensare un sistema sanitario nazionale pubblico e universale.
Non si osserva nessuna inversione di tendenza. Gli “eroi” – che mai han voluto e vogliono esser definiti tali – avranno sì la loro moneta da 2 euro commemorativa delle “Professioni sanitarie” (e non possiamo qui riportare alcuni coloriti commenti dei commemorati), ma per il resto continuano a lavorare con turni estenuanti, spesso in strutture vecchie e rattoppate, con contratti a termine, pronto soccorso saturi, posti letto insufficienti. Il tutto senza il sollievo di una solida sanità di territorio che darebbe respiro agli ospedali e maggiore conforto ai malati.
Ivrea non fa eccezione
Piacerebbe a tutti, in una situazione critica, poter avere la consolazione di vivere in un’isola felice. Purtroppo non è così per Ivrea e questa parte di Canavese. L’ospedale cittadino soffre da anni come un corpo in un abito stretto a cui saltano i bottoni e si lacera in più punti, riparato (quando accade) con toppe non sempre del colore e forma giuste. Il nuovo ospedale “tarda a comparire” (per citare indegnamente Antonio Gramsci) tanto che potremmo parlare di una chimera o meglio di un’utopia, termine familiare nella terra di Olivetti. E nel frattempo un ospedale di territorio come quello di Castellamonte è chiuso dal 2013, mantenendo solo i servizi di riabilitazione. Neanche l’emergenza sanitaria è riuscita a far riaprire questa struttura, preferendo convertire un ospedale attivo come quello di Cuorgné in “ospedale Covid”, caricando gli altri ospedali del territorio, primo fra tutti quello di Ivrea, già al limite. La ripresa dei contagi, anche nel nostro territorio, decisamente prevedibile come l’avvio della cosiddetta “seconda ondata”, non ha quindi trovato un corpo sanitario irrobustito. Certo è aumentata l’esperienza, ma il personale continua a essere sotto organico e a lavorare in assenza di garanzia di continuità. Le infermiere e gli infermieri si trovano a lavorare con un medico per qualche settimana, dopo di che ne arriva uno nuovo per qualche altra settimana, e via e via. Sono i cosiddetti “medici a gettone”, tremenda locuzione. Certo era così anche prima della pandemia, ma se era grave in una situazione di “normalità” (costano di più e sono un problema per l’organizzazione e la qualità del lavoro), oggi è gravissimo. E non ci sono solo medici interinali, anche una buona percentuale di infermiere e infermieri sono assunti dalle agenzie con contratti a tempo variabile. Non occorre spiegare come questa gestione del personale sia deleteria.
Il pubblico annaspa, il privato cresce. La minoranza chiede verifiche al Sindaco.
In questo contesto dove il nostro ospedale cittadino fatica vi è per contro una realtà che prospera: l’azienda privata “Clinica eporediese” che ha visto nel 2020 crescere i trasferimenti pubblici grazie alla disponibilità a ospitare malati Covid.
Nel 2020 saranno 17,5 milioni (un milione più del 2019) gli euro che percepirà la clinica del gruppo Policlinico di Monza dallo Stato. Nulla fuori dalle regole, per carità, ma almeno una verifica andrebbe fatta sull’adeguatezza di quell’esborso, giusto per capire se non si stia privilegiando il privato a scapito di investimenti nel pubblico.
Ed è proprio quello che nell’ultimo consiglio comunale del 28 dicembre scorso han chiesto i consiglieri di minoranza Comotto (Viviamo Ivrea) e Fresc (M5S). La mozione impegna il Sindaco (anche in qualità di Presidente dell’Assemblea dei Sindaci dell’ASL TO4) a “verificare, tramite gli strumenti ritenuti più opportuni dall’Assemblea dei Sindaci, se le cifre corrisposte al privato siano corrette e se sì che venga aperto un dibattito in sede di ASL TO4 sull’opportunità di un tale spesa verso la sanità privata invece di investire su quella pubblica” e anche a “chiedere all’ASL TO4 e/o alla Regione un piano di investimenti chiaro e suffragato da sufficienti risorse sia per ciò che riguarda il nuovo Ospedale sia per quanto riguarda quello esistente oltre un Piano di riorganizzazione complessivo di edilizia sanitaria sul territorio dell’intera ASL TO4 che consideri anche il riammodernamento e il riutilizzo a pieno regime degli ospedali di Castellamonte e Cuorgnè.”. Nella mozione vi era anche un passaggio di verifica su eventuali “conflitti di interesse nei passaggi di personale di livello dirigenziale pubblico/privato e/o negli incarichi esterni affidati senza gara per ruoli apicali con potere decisionale sugli appalti”. Il riferimento è il passaggio del ex-direttore generale dell’Asl TO4 Lorenzo Ardissone nel gruppo Policlinico di Monza (gruppo dal quale già arrivava essendo stato direttore amministrativo e poi generale della Clinica Eporediese) e l’assegnazione da parte del nuovo commissario Luigi Vercellino di una consulenza per riorganizzare il Servizio di igiene e sanità pubblica a Clemente Ponzetti, coordinatore del gruppo sanitario del Policlinico di Monza.
Neanche da dire che la mozione non è passata per il voto di astensione di tutta la maggioranza, sindaco in testa. Nel suo intervento la consigliera di maggioranza Bono (Lega) ha esordito dicendo che di fatto le richieste della mozione erano già soddisfatte solo per il fatto che il sindaco ha un buon rapporto con la Regione e con il commissario dell’Asl TO4 Vercellino (tanto disponibile). E anche riguardo ai 17 milioni e mezzo la consigliera leghista è tranquilla e non capisce i dubbi della minoranza “In particolare mi colpisce l’affermazione reiterata – afferma stupita – che la cifra data alla Clinica eporediese sia sproporzionata perché non siamo esperti. Certo voler verificare a cosa serve una cifra così importante è legittimo ma diamo per buona, non partiamo da un pregiudizio e partiamo dal presupposto che ci sia una buona ragione.”
Insomma, “Tutto va bene, Madama la marchesa“.
La chicca finale l’ha regalata poi il sindaco Sertoli che chiamato dal presidente del consiglio per esprimere il suo voto dichiara forte e chiaro “favorevole” per poi correggersi subito “ehm scusate astenuto! Un lapsus …” e “irritualmente” si è sentito di aggiungere “Il fatto che io mi astenga non significa che io non intenda andare a verificare i punti sostenuti”. La confusione regna sovrana.
Cadigia Perini