Spesso si usa dire che la pandemia ha cambiato tutto, che è come dire che ha cambiato tutti noi. Vale per i processi macroeconomici, come per i rapporti interpersonali, e come tutti i cambiamenti strutturali non ce li scrolleremo più di dosso.
Il lavoro non fa eccezione. Il covid ha prodotto un vero e proprio shock: la paura delle persone contro la “macchina” economica che non voleva fermarsi, il diritto alla salute contro gli interessi economici, gli scioperi spontanei, quelli organizzati e – nelle realtà più disperse – l’autodifesa individuale, cioè la semplice “assenza individuale” dal lavoro. Giornate convulse, a marzo del 2020, l’inizio di un tunnel che a ondate successive arriva fino ad oggi, con esperienze importanti di partecipazione – i comitati aziendali per il contenimento del contagio – , la chiusura delle “attività non essenziali” fino ai primi di maggio, la spasmodica ricerca dei Dpi – i dispositivi di protezione individuale -, il blocco dei licenziamenti, l’estensione della cassa integrazione… e lo smart working!
C’era già, lo smart working, regolato da una legge – la n.81 del 2017 – basata su un presupposto, l’accordo del lavoratore e del datore di lavoro, accompagnato – anche se non obbligatoriamente – da accordi aziendali e progressivamente inserito nei contratti nazionali di categoria. Io stesso ricordo i primi accordi a livello torinese, in aziende metalmeccaniche quali la General Motors e la Italdesign.
Ma nell’emergenza il presupposto del consenso del lavoratore viene meno, così come l’alternanza del lavoro in presenza con quello a distanza. Nell’emergenza lo smart working diventa una misura straordinaria di distanziamento sociale, dove il carattere “smart” resta confinato al nome: la sostanza è semplicemente lavoro da remoto, quasi esclusivamente da casa.
Da questo punto di vista la definizione che ne dà il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali appare oggi lontana anni luce dalla realtà: “lo Smart Working (o Lavoro Agile) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”. Un fenomeno enorme che, nel corso della pandemia, ha avuto evoluzioni differenti, tra pubblico e privato e tra settori diversi: in qualche caso i lavoratori sono rientrati in presenza, in altri continua più o meno com’era partito – tante persone da marzo 2020 non sono più rientrate nei propri uffici -, in molte situazioni soprattutto della pubblica amministrazioni si alterna al lavoro in presenza.
Secondo i numeri dell’Osservatorio Smart Working, le persone che hanno lavorato con questa modalità nel 2020 sono state 6,58 milioni, praticamente 1/3 dei lavoratori dipendenti italiani, di cui 2,11 milioni nelle grandi imprese e 1,85 milioni nella Pubblica Amministrazione: erano stati complessivamente appena 570 mila nel corso del 2019.
Una cosa è certa: lo smartworking ha assunto un peso destinato a consolidarsi nel prossimo futuro e, al di là delle nostre personali convinzioni, resterà anche dopo l’emergenza. Già oggi c’è ampio spazio di azione per chi – come me – prova a contrattare la regolazione dei rapporti di lavoro, dagli orari al diritto alla disconnessione, agli strumenti di lavoro, anche perché nell’ultimo anno è successo di tutto: c’è chi ha lavorato seduto sul letto con il pc in grembo, disputandosi il poco spazio, e la scarsa connessione, con coniuge anch’esso in smart working e figli in dad, finendo per “apprezzare” forzosamente questa modalità di lavoro come paradossale strumento di conciliazione!
Sarebbe sbagliato demonizzare lo smart working, però è bene essere consapevoli del perché abbia acquisito una centralità prima impensabile: certo, a determinate condizioni non dispiace neanche ai lavoratori, ed è servito a fronteggiare un’emergenza, ma soprattutto conviene alle aziende: si riducono i costi senza che si riduca la produttività!
Questa è la lezione di questi mesi e … scusate se è poco!
Ed è già in atto un processo gigantesco di riduzione e riorganizzazione degli spazi e dei servizi in azienda, che produce cambiamenti anche nell’organizzazione della società, dalla mobilità individuale e collettiva alle attività commerciali nel campo della ristorazione.
Nella velocità di questi processi c’è il rischio di essere travolti, di non riuscire a rappresentare diritti ed interessi di lavoratrici e lavoratori che di questi processi percepiscono l’ambivalenza ma che alla fine li subiscono: costruire le condizioni per contrattare il lavoro a distanza, oltre l’orizzonte della pandemia, è tutt’altro che scontato, soprattutto per quanto riguarda condizioni di lavoro, salute e sicurezza.
Qui, oltre alla frequente inadeguatezza delle postazioni e degli strumenti di lavoro, occorre recuperare tutto un versante non adeguatamente esplorato che riguarda le patologie da stress lavoro correlato. Tanto più che lo smart working rappresenta un passo strutturale verso l’individualizzazione del rapporto di lavoro, a cui si accompagna una inedita solitudine nel lavoro e la difficoltà nel distinguerlo dalla vita privata. E poi cambiano i rapporti con l’azienda, con i livelli gerarchici, con i colleghi di lavoro, e – perché no?! – anche con la rappresentanza sindacale. E cambia, ma non si riduce, il controllo sulla prestazione di lavoro, con differenze anche significativa: da chi lavora davvero per obbiettivi e spesso lavora più di prima, a chi – come nelle attività di call center – ha tutto rigidamente regolato e controllato come prima, dalle pause alla durata delle telefonate, salvo il fatto che è solo.
Insomma il distanziamento sociale si istituzionalizza, può diventare isolamento, anche in aziende grandi, con centinaia o anche migliaia di dipendenti. Una nuova frontiera. Che a mio giudizio comporta più rischi che opportunità, che non possiamo però permetterci di rimuovere ma dobbiamo cercare di contrattare.
Federico Bellono – responsabile Salute e Sicurezza Cgil Torino
* Questo articolo è pubblicato anche su Dialoghi Urbani della rivista Città & Territorio dell’Unione Culturale di Torino