Maurizio Maggiani racconta in un’intervista Il Romanzo della Nazione (Feltrinelli 2015, €17). Il libro ha vinto il Premio Elsa Morante 2015 e Premio Anthia 2016.
Maggiani è autore di numerosi romanzi, editi da Feltrinelli, tra i quali ricordiamo Il coraggio del pettirosso (1995, Premio Campiello 1995), La regina disadorna (1998), E’ stata una vertigine (2002), Il viaggiatore notturno (2005, Premio Strega 2005 e Premio Ernest Hemingway), Meccanica Celeste (2010), La zecca e la rosa (2016). Ha scritto inoltre Mi sono perso a Genova. Una guida (2007) e I figli della Repubblica. Un’invettiva (2014). Nel 2018 ha pubblicato per Chiarelettere il dialogo con Don Luigi Verdi Sempre.
Si ringrazia il festival della lettura di Ivrea La Grande Invasione, grazie al quale ho potuto organizzare l’intervista con l’autore, in città per presentare Sempre.
Il Romanzo della Nazione si apre con la morte del padre dell’autore. Da qui Maggiani ricorda il padre durante la propria infanzia, riflette sul suo rapporto con lui e si sofferma lungamente sulle vicende della propria famiglia quando lui era bambino. Una modesta famiglia di Castelnuovo Magra, un paese in provincia di La Spezia. Ma l’autore spiega anche come furono vissuti momenti come le morti di Kennedy e di Togliatti in un paesino ligure, include episodi della Resistenza e arriva fino alla costruzione dell’Arsenale Militare a La Spezia voluto da Cavour.
Il Romanzo della nazione è composto, per buona parte, dal racconto della storia della sua famiglia e dai ritratti dei suoi membri. Come si racconta in un libro una storia vera, fatta di personaggi che l’autore ha conosciuto? Si perde o si aggiunge qualcosa?
“Io non sono uno scrittore nato, fino a quando non ho avuto 36 anni non avrei immaginato di fare questo mestiere. Ho cominciato a immaginarlo solo dopo il secondo romanzo, nel ’90, a 40 anni. Ma sono un narratore, da quando ero bambino. Perché appartengo a una cultura di narratori, forse oggi totalmente scomparsa: la cultura dei contadini. Per tutta la mia infanzia dopo cena sentivo i genitori, gli adulti, la famiglia che raccontavano. Perché lo facevano, invece di andare a dormire dopo ore di un lavoro di merda, un lavoro senza vittorie, senza soddisfazioni? Proprio per questo: perché raccontare dava una dimensione epica al lavoro di merda. Certo, raccontavano quello che vedevano, non era Guerra e Pace. La dimensione del racconto, poi, ha uno strumento: la plasticità della memoria. La memoria è viva, plastica, mutevole. Non è attendibile dal punto di vista materiale. Anche il Trattato di Versailles sembrerebbe attendibile nero su bianco, ma non lo è.
Dunque io ascoltavo questi racconti e mi ci addormentavo, sul piatto, poi mi portavano a letto ma anche lì continuavo a sentire e i racconti entravano nei sogni. Ma la mattina i sogni erano così forti che entravano nella vita.
Io ho un difetto congenito nel percepire la realtà: non sono sicuro di distinguere quello che è successo veramente da quello che ho immaginato che sia successo, o sentito da altri che sia successo. E’ un problema. Ma poi è diventato un mestiere. Dunque non mi sono mai preoccupato di raccontare il vero, come non se ne preoccupavano i miei familiari con le loro storie. A parte che la verità non esiste, è una menzogna, verità è la parola che usano più spesso i bugiardi. Un buon narratore, invece, fa altro. Sa costruire la realtà”.
Perciò Lei ha descritto un mondo vero, ma l’ha trasformato?
“Non faccio nemmeno questi ragionamenti”.
Nel libro compaiono molte frasi in dialetto ligure. Cos’ha il dialetto che l’italiano non dice, e viceversa?
“Il dialetto è la lingua materna, la lingua della casa. Quando lo metto per scritto faccio un’operazione metalinguistica, perché il dialetto è orale. Il fatto è che certe cose le si pensano solo in alcune lingue e non in altre. Certi suoni, evocazioni, fantasmi, immagini… Certe cose le penso in dialetto e le devo tradurre. Per esempio: Ne gno’. Tradotto è schifoso. Pensa che mia zia, di 89 anni, me lo dice ancora e quando la sento so che sono tornato a casa. So che appartengo.
Di essere italiano a me non me ne frega. L’italiano lo so perché è la lingua che mi hanno insegnato a scuola. Posso considerarmi libero di girare il mondo, perché con il tempo ho capito da dove vengo, e quando mi giro indietro so da dove vengo”.
Un altro tema centrale del libro, oltre alla famiglia, è il lavoro. Maggiani in alcune pagine ricorda come passava da bambino ogni primo maggio: al corteo dei lavoratori del paese, con il padre. Ecco alcuni passaggi: Passo lungo e moderato, diritti come fusi, due prìncipi in divisa da gala. Un re e il suo principino. Lui si fermava in piazza Garibaldi a prendere il giornale. Lo piegava e se lo metteva nella tasca di dietro ai pantaloni. Stava attento che la falda della giacca gli girasse attorno per far vedere bene il titolo. “L’avanti!”. E andavamo in piazza Benedetto Brin, dove cominciava il corteo dei lavoratori. Tutti lì i lavoratori, tutti tirati, anche con la cravatta, come mio padre. Allineati con gli striscioni delle loro fabbriche […]. C’erano persino i contadini, montati sui trattori e sui mietitrebbia con le camicie bianche aperte sul collo e i cappelli ti paglia in testa. […] E più avanti nel romanzo: Era tutta gente che sognava mentre lavorava, e quello che avrebbero fatto con il loro lavoro era la loro utopia.
Mentre leggevo queste pagine facevo sempre un confronto con il presente. Suo padre dava un’importanza enorme a questa festa. Perché, secondo lei, non si dà più questa centralità alle manifestazioni? E perché non si sogna più il lavoro come propria realizzazione e come qualcosa di utile?
“Perché il capitalismo ha vinto. Le ragioni del capitale hanno vinto. Se vuoi tenere i lavoratori a freno, al loro posto, se vuoi farti i tuoi interessi e fare dei tuoi interessi il sistema (e il sistema sono i tuoi interessi) la prima cosa che devi fare è rompere le aggregazioni. I legami di comunità, vedi l’Olivetti. L’individualismo. Separare. E’ una vittoria facile. Ogni regime autoritario lo fa come prima cosa. Anche disgregare le feste, appunto, che sono pericolose, frenare tutti gli assembramenti”.
A proposito di questo, il libro racconta anche del quartiere operaio di La Spezia, nato a fine ‘800. Anche lì si formò un vero spirito di comunità tra i lavoratori.
“Il quartiere operaio, dove io peraltro ho vissuto, aveva una piazza. Ed era costantemente occupata, perché c’era il bisogno di occuparla. Tu tornavi da lavoro, dopo dieci ore, e prima di entrare in casa ti sedevi un attimo in piazza. C’era tutto: la parrocchia, il bar, il circolo del Partito Comunista, il circolo ricreativo. E’ chiaro che è pericolosissimo. Da questo venne la grande intuizione di Berlusconi: i manifesti enormi, per le strade, con la scritta Corri a casa in fretta in fretta, c’è il biscione che ti aspetta. A casa, davanti alla televisione, e così sì che non rompi più i coglioni. E’ l’individualismo. Ma ora anche i social, che sono non social, hanno questa funzione. Mentre, se poi vai a vedere, il rapporto analogico tra gli uomini funziona ancora”.
Il libro parla di un errore nella crescita della sua generazione. I genitori, che vissero la Resistenza, poi vollero proteggere troppo i figli e li viziarono. Cosa avrebbero dovuto fare?
“Niente. Perché hanno dato anche grandi opportunità ai figli. Ma cosa hanno fatto loro non mi interessa, mi interessa cosa ho fatto io. Io solo ora mi chiedo cosa devo dare e prendere”. Poif aggiunge: “Voglio aprire una scuola completamente gratuita, la Scuola delle passioni. Un corso decennale per giovani uomini e donne, dai 16 ai 23 anni. Come una Giovine Italia senza Mazzini. Nelle lezioni si farà quello che è stato fatto con me: rispondere alle domande, dare tutto quello che ho, quello che ho sentito, alla generazione che si affaccia alla realtà. Dare quello che ho ricevuto. Dei maestri. Io li ho avuti i maestri”.
E nel dettaglio di cosa si parlerà?
“Ho pensato a due temi per il primo ciclo: il Potere e la Creazione. Temi grossi. Ma se un 18enne non si interessa a temi grossi, di cosa si interessa?” E a proposito di maestri: “A me Franco Fortini si sedeva davanti, dopo pranzo, e parlava, parlava. E io mi ci addormentavo davanti, ma lui comunque continuava a parlare. Questo. L’idea è venuta, a me e a mia moglie, perché ho pensato: cosa posso fare? O sparisco completamente, o l’unica cosa che posso fare è trasmettere quello che ho avuto.
Mia moglie insegna filosofia. Una volta i suoi studenti hanno partecipato a un concorso di filosofia, che peraltro hanno vinto, e si sono ritrovati a studiare assieme. Quello che mi ha colpito è che mi sono sembrati esattamente com’ero io a 18 anni: gli piaceva stare insieme, l’amicizia, ma gli piaceva stare assieme anche fisicamente, cenare insieme, non se ne volevano mai andare… La Scuola delle passioni vuol dire questo: chi va a scuola è appassionato”.
Nel libro suo padre è un uomo di grande passione politica, che si mette in gioco da ragazzo e continua a farlo per tutta la vita. Ma poi lo vediamo in un ospizio, interessato solo alle paperelle del lago e a un aeroplanino. Cosa significa questa pagina?
“Ma non posso dirti che significato ha. Non posso rispondere. L’unico senso che conta è il tuo, quello che gli dai tu”.
Allora dico la mia interpretazione. Per me è l’immagine della vecchiaia, che viene e annulla ogni uomo. Mettiamo che nell’ospizio incontriamo due anziani, uno che nella vita non ha fatto niente e uno che è come suo padre. Alla fine sono entrambi vecchi e uguali tra loro, con gli stessi problemi ed entrambi dietro alle loro piccole distrazioni.
“E’ una bella interpretazione.” Poi aggiunge: “A un certo punto della vita succede questa cosa sensazionale, forse sensazionale: i figli diventano i padri dei padri e le madri della madri”.
Sua madre Adorna invece è una donna severa, impassibile e di così poco affetto. Esistono ancora figure del genere, perlomeno nel mondo contadino?
“Tu sei piemontese. Vai nel pinerolese, cerca una famiglia valdese. Lì vedrai che donne del genere esistono ancora. In confronto mia madre era un cioccolatino”.
Mi ha colpito molto il modo in cui i suoi genitori parlano del suo mestiere. Il padre lo spiega con un gesto che vuol dire “rimestare”, come fanno i politici. Per la madre è raccontare bugie. Perché? Il loro mondo era troppo lontano dai libri?
“No, non era un mondo lontano dai libri. In casa mia di libri ce se sono sempre stati, anche se pochi. L’Orlando Furioso, la Commedia, edizioni del popolo che ci si tramandava, che erano di mio padre e del padre di mio padre. Ma un conto è Dante e un conto è tuo figlio. Il loro orizzonte non era quello, per me si auguravano qualcosa di più concreto. E’ il proletariato”.
Quello che mi è piaciuto di più del libro è l’insieme delle vicende della famiglia di Maggiani, su cui ho chiesto di più. Sono pagine che ricordano com’è stata l’Italia 50 anni fa, come funzionava un paesino del genere, quali erano i modi di pensare (molti per noi sarebbero ridicoli), quanto siamo diversi ora. Ma non è memorialistica, sono pagine di un romanzo: Maggiani ritrae una famiglia complessa, tenta di risolvere il rapporto con il padre, cerca delle risposte.
Finisco con una cosa che non c’entra nulla, ma a cui tengo. Abbiamo parlato un po’ di Ivrea e lui ha detto: “Io ho lavorato all’Olivetti, allo stabilimento di Chatillon. Avevo 21 anni. Ci sono stato 4 mesi e dopo me ne sono venuto via, perché io dovevo stare a Ivrea… e il mio amore era a La Spezia, e io sono venuto via. Poi non è durato, ma non importa”.
Elia Curzio