Martedì 7 novembre si è tenuto, al Polo formativo universitario Officina H di Ivrea, un incontro sul tema della violenza nelle religioni. A parlarne è stato invitato il professor Natale Spineto, docente in Storia delle religioni all’Università di Torino, introdotto al pubblico da Aldo Gandolfi
Comprendere le ragioni profonde del problema della violenza nelle religioni non è cosa da poco, soprattutto se si considera che il tema ci tocca particolarmente da vicino ed è sovente soggetto a strumentalizzazioni. Il professor Natale Spineto, adottando il medoto comparativo della disciplina storico-religiosa ha così tentato di affrontare la questione ad un livello puramente accademico, non avendo, come da sua stessa ammissione, «conoscenze sufficienti sulle religioni contemporanee».
Dare ordine e un significato alla violenza
Esisterebbero, secondo il professor Spineto, vari gradi di interpretazione sulla questione, primo tra tutti quello legato al “concetto di ordine”. L’uomo primitivo, come prima attività, cercava in qualsiasi modo di dare un significato a ciò che lo circondava, attribuendo un ordine al caos. In questo contesto la religione si presenta come ottimo pretesto per l’attribuzione di significati a quelle cose particolarmente difficili da controllare e che, per giunta, non si conosce. Una di queste è proprio la violenza, ma che tipo di significato attribuire ad una pratica apparentemente priva di senso e scopo?
La letteratura storico-religiosa contemporanea offre due modelli interpretativi.
La prima è la teoria dello studioso René Girard, autore dell’opera “La violenza e il sacro” che dal 1972 non ha cessato di fare scuola. Secondo Girard la violenza sarebbe un qualcosa di innato nell’essere umano, ma questo desiderio di costante prevaricazione non dissimile dall’homo homini lupus hobbesiano rischierebbe di generare faide infinite se non venisse posto un freno. L’accumulazione di violenza in una società non può, per Girard, essere infinita e per ovviare a questo problema le antiche società avrebbero imparato a gestire e sfogare la violenza solamente proiettandola su un bersaglio “sacrificale”, ovvero canalizzandola secondo il principio del capro espiatorio. La necessità è quella di incanalare l’aggressività per poterla definitivamente eliminare dalla società.
Il capro espiatorio, per Girard, ricopre così contemporaneamente il ruolo di oggetto impuro da eliminare e di responsabile per la ritrovata pace della società attraverso la sua eliminazione.
Il tentativo di dare una spiegazione alla violenza in chiave religiosa venne data anche dallo storico delle religioni Walter Burkert. Secondo la sua lettura, l’aggressività sarebbe tipica degli uomini al pari del senso di “vergogna” e di “ribrezzo” provati nel commettere atti violenti. Nelle società più antiche infatti, basate prevalentemente sulla caccia, gli uomini vivevano dell’uccisione degli animali, ma allo stesso tempo dall’annientamento di una vita ricavavano anche disagio. La risposta al disagio per la violenza inferta venne data dalla religione, la quale cercò di dare un senso a tale violenza. Le antiche religioni avrebbero giustificato la violenza come necessaria per il rinnovamento; un’eliminazione fisica compiuta per favorire la creazione del nuovo.
Politeismi e monoteismi a confronto
Un secondo livello di interpretazione del rapporto violenza-religione verrebbe offerto, secondo Spineto, dalle diverse tipologie di religione, tra le quali spiccano le due più comuni: i politeismi e i monoteismi.
Nei politesmi ogni dio incarna un valore, una qualità o un sentimento tipici degli esseri umani (il politeismo greco ne è emblematico); ciò caratterizza queste religioni sia per il numero elevato di divinità in esse presenti, sia per il loro carattere tollerante e inclusivo nei confronti di altre religioni. Questa tolleranza porterebbe a credere che i politesmi siano religioni poco violente, al contrario invece dei monoteismi. Se si parla, infatti, di monoteismo esclusivista, le sue caratteristiche sono prevalentemente atte a fomentare un atteggimaneto prevalicatore e violento nei confronti di altre religioni, i cui dei vengono ritenuti falsi oppure demoni. La loro tendenza universalista porta inoltre i monoteismi esclusivisti a usare violenza alle altre culture per imporre a queste il loro credo.
Tuttavia, la teoria dei monoteismi come religioni più violente dei politeismi è confutata in parte dalla constatazione dell’esistenza di politeismi estremamente violenti, come testimonia il fondamentalismo buddhista in Sri Lanka. Ciò dimostra quindi che nella realtà storica tale teoria ha delle pecche.
La religione giustificatrice delle violenze
Spineto, nel tentativo di suggerire ai presenti una chiave di lettura sui fondamentalismi contemporanei, non ha omesso di rimarcare come esista un terzo modo in cui il rapporto delle religioni con la violenza può essere inteso: le religioni possono infatti essere addirittura pretesto di violenza, talvolta legittimazione consapevole (ad esempio dall’atto benedicente del sacerdote nei confronti dell’esercito). In questo scenario i simboli religiosi risultano estremamenti efficaci per convogliare e catalizzare le emozioni, arrivando addirittura a manipolarle. Ne risulta quindi che le guerre possono usare la religione per la sua capacità di mediazione simbolica allo scopo di eccitare gli spiriti e raggiungere più facilmente scopi non religiosi.
Ci sarebbe da scommettere che molti dei partecipanti si siano presentati all’incontro speranzosi di ascoltare qualche impressione o studio più approfondito attorno ai fondamentalismi islamici contemporanei, percepiti dalle masse come anatemi da debellare. Ciò non è avvenuto, ma gli stimoli al ragionamento che Spineto ha proposto si spera che aiutino ad avere una maggior comprensione sul rapporto religione-violenza nelle varie culture.
Sara Foglino