Al Livrè di Ivrea, presentato sabato 24 novembre, insieme a Lisa Gino, l’ultimo libro dello scrittore
Da un’idea dell’editore NNE CroceVia che decide di affidare a scrittori diversi l’analisi e il racconto di alcune parole “cristiane”, Gian Luca Favetto, narratore, giornalista di “La Repubblica”, poeta e autore per Radio Rai, eredita la parola bella e profonda che si chiama “perdono”.
Questa parola si pone dunque sotto la lente dello scrittore che, poco per volta, l’ accoglie ed esamina come nuova scoperta di sé.
Da questa unica parola nasce un libro intero che non è né un romanzo né un saggio, ma un viaggio di esplorazione in cui Favetto, come scrive lui stesso, “pedina” il perdono alla ricerca dei suoi molteplici significati. Il perdono si fa largo attraverso la foresta dei contatti, che lo scrittore apre nel dialogo con alcuni amici, richiamando alla memoria esperienze personali, interrogando film od opere teatrali che emergono dal passato più o meno recente. Il libro diventa un mosaico letterario in cui le parole procedono in avanscoperta alla ricerca di questa loro consorella denominata, per l’appunto, “perdono” e poi ritornano a casa.
Le parole “tornano sempre a casa”, dice lo stesso scrittore a Lisa Gino che lo intervista e lo sollecita sui temi del libro. “Le parole producono frutti che noi chiamiamo storie”. Il perdono contiene in sé altre parole, quella netta di “dono” e quella implicita di “perdita”. Il perdono si riceve o si dà come un dono, consegue a una perdita e a una ferita, è “un atto di grazia e di grazie” dice lo scrittore. Ci sono cose difficili da perdonare, altre per cui il perdono sembra impossibile. Favetto parte dai luoghi che riconosce come vissuti e di casa, che sono affettivamente cresciuti dentro di lui, luoghi, ad esempio, come il teatro di una sera a Lione dove, anni fa, ha incontrato una versione del Macbeth. In questo caso il “perdono” è quello che Macbeth e sua moglie non riescono a concedersi, il perdono più dolorosamente legato al travaglio della coscienza.
L’immagine del perdono avanza nella ricognizione ampia che Favetto fa compiere alla sua scrittura: “Scrivere è come avanzare con un lume che rischiara la strada”. Gli aspetti del perdono si accavallano, diventano ponti che congiungono e leniscono, ponti che si allungano nel tempo ma che arrivano dall’altra parte. Ci vuole tempo per perdonare; il perdono non è un automatismo di convenienza. Il perdono è una via più difficile rispetto a quella che nutre il rancore, il perdono “non fa marcire il cuore”.
Tra le tante facce del perdono c’è quello che chiede Cesare Pavese prima di andarsene, c’è il perdono che lascia inquieti o placati, quello che va oltre “l’umana inadeguatezza”.
Il libro è un incrocio di storie che sembrano legarsi senza alcuna premeditazione. Da Lione a Roma alle vie di Benares, cuore sacro dell’India, dove sui gat, che delimitano il Gange, il brulicare della vita e la polvere della morte si sono già perdonati l’atavico antagonismo, finalmente uniti nell’abbraccio di una sola anima. E ancora si parla di Ulisse e poi di Achille, di Priamo e di Ettore, dell’Odissea e del perdono che richiedono spesso i rapporti tra genitori e figli. Si parla anche di Sacco e Vanzetti, del discorso di quest’ultimo prima di essere condannato a morte: tre minuti di monologo come un canto d’innocenza. Si parla di Pasolini e della città di Matera prima dimenticata come un inutile groviglio di sassi e poi riqualificata a spese dei contadini che vengono deportati altrove. A Matera si passa dalla vergogna della miseria a quella dell’esodo imposto dal risanamento che separa dalle radici. Ogni storia è un invito a ricuperare la memoria. Il perdono ripara le ferite, la scrittura ripara le storie dall’oblìo.
Lisa Gino chiede a Favetto se esiste un’opera d’arte che, secondo lui, rappresenti, meglio di altre, il perdono. Lo scrittore, attingendo ancora dal libro, evoca la “faccia di corteccia” dell’attore Tommy Lee Jones. Gian Luca ricorda il film “La valle di Elah” di Paul Haggis, con l’attore americano e Susan Sarandon nei panni di due coniugi che, dopo aver già perso il primo figlio, perdono anche il secondo, morto in Iraq per fare il suo dovere. Un padre può perdonarsi di aver raccomandato al figlio di fare il proprio dovere quando questo dovere vuol dire morire?
Siamo ai saluti; resta il tempo delle dediche sulle copie del libro e le strette di mano ai convenuti.
Pierangelo Scala