Dopo le proteste e gli scioperi dei lavoratori il governo il 13 marzo ha convocato i sindacati e le associazioni degli imprenditori per definire le norme di sicurezza per gli ambienti di lavoro per l’emergenza corona virus.
Con il decreto del Governo dell’11 marzo che ha previsto “ulteriori misure in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 sull’intero territorio nazionale”, i lavoratori si aspettavano misure coraggiose fino a quella estrema della chiusura di aziende non essenziali. “Non è tollerabile che vedano [i lavoratori] la loro vita di tutti i giorni protetta e garantita da tante norme, ma una volta superati i cancelli della fabbrica si trovino in una terra di nessuno“, denunciava Francesca Re David, segretaria nazionale Fiom-Cgil.
La preoccupazione e il senso di abbandono hanno fatto nascere proteste e scioperi spontanei in molte fabbriche al punto che il Governo non ha potuto più rimandare di affrontare il tema della sicurezza nei posti di lavoro e il 13 marzo ha convocato i sindacati e le associazioni degli imprenditori in video-conferenza. Dopo 18 ore di discussione, il 14 marzo viene firmato da tutte le parti il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. Un protocollo che però non tranquilizza del tutto i lavoratori perché nonostante si affermi che “La prosecuzione delle attività produttive può avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione“, troppo viene lasciato alla discrezionalità delle aziende. Il documento contiene infatti solo una serie di raccomandazioni e si capisce subito che non vi sarà un uguale trattamento e uguali provvedimenti. Dipenderà dall’azienda e dalla forza del sindacato, laddove presente, perché vi sono molte realtà, le più piccole, dove non vi è una rappresentanza sindacale.
Raccomandazioni per le aziende, obblighi per i lavoratori.
Già nella premessa tutta una serie di precauzioni sono solo “raccomandate” e non obbligatorie.
Si raccomanda che siano sospese le attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione. Si legge che “qualora il lavoro imponga di lavorare a distanza interpersonale minore di un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative è comunque necessario l’uso delle mascherine, e altri dispositivi di protezione …”. Quel “necessario” doveva essere “obbligatorio”. Ma la parola “obbligo” compare solo una volta in tutto il documento e riguarda i lavoratori, “obbligo di rimanere al proprio domicilio in presenza di febbre (oltre 37.5°) o altri sintomi influenzali …“.
Anche la il verbo dovere è per lo più usato per i lavoratori “nel caso in cui una persona presente in azienda sviluppi febbre e sintomi di infezione respiratoria quali la tosse, lo deve dichiarare immediatamente all’ufficio del personale“. In più punti del protocollo viene concesso alle aziende di recepire dati sensibili sulla salute dei propri dipendenti, scavalcando le normative vigenti. Il Garante della privacy, interpellato sul tema, perché già prima del protocollo vi erano datori di lavoro che volevano misurare la temperatura ai dipendenti, così si è espresso: “L’accertamento e la raccolta di informazioni relative ai sintomi tipici del Coronavirus e alle informazioni sui recenti spostamenti di ogni individuo spettano agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile, che sono gli organi deputati a garantire il rispetto delle regole di sanità pubblica recentemente adottate“.
Solo il medico competente, con l’obbligo del segreto professionale, può essere messo a conoscenza dello stato della salute del lavoratore. Per questo i medici del lavoro dovevano essere i primi ad essere coinvolti ed attivati. Invece sembra che la categoria non abbia ricevuto alcuna direttiva per la gestione di questa emergenza sanitaria. Anche nel protocollo si accenna appena alla figura del medico competente. Vengono citati solo alla fine del documento, al paragrafo 12. Si parla genericamente di collaborazione fra medico, datore di lavoro e RLS [rappresentante dei lavoratori per la sicurezza] e si chiede al medico di segnalare “all’azienda situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti“, fatto assolutamente fuori dalle regole, come fuori dalle regole è il controllo della temperatura previsto al paragrafo 2 del protocollo. “Il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea. Se tale temperatura risulterà superiore ai 37,5°, non sarà consentito l’accesso ai luoghi di lavoro.“. In tendenza con l’abbassamento dell’attenzione per la sicurezza sui luoghi di lavoro, il ruolo del medico competente è stato negli anni marginalizzato. Inizialmente era dipendente dell’ASL, poi è dovuto diventare libero professionista ma convenzionato con le ASL, e oggi è un medico privato pagato dall’azienda che da un lato tenderà a risparmiare sugli interventi e dall’altra cambierà medico se questo risultasse troppo zelante.
Un punto di partenza
Questo accordo rimane un punto di partenza, sicuramente non sufficiente a risolvere il problema, come argomenta Federico Bellono della Cgil di Torino nel suo intervento sul nostro giornale “il protocollo va innanzitutto applicato e anche implementato per quelle parti che non sono sufficientemente specificate: questo è un lavoro che andrà da subito svolto a livello locale, chiamando le istituzioni e gli enti preposti – dal prefetto ai Comuni, alle stesse ASL – a svolgere un ruolo di regia e di controllo insieme a noi e alle imprese, segnalando e intervenendo in tutte quelle situazioni dove la sicurezza del lavoratori non è garantita.
La situazione nell’eporediese
Difficile fare una mappa completa della situazione delle aziende nel nostro territorio. In generale, anche se in tanti casi con molto ritardo, le aziende si sono mosse per permettere ai dipendenti di lavorare da casa (il famoso smart working).
In Wind3 era già attivo un accordo per lo smart working, si è trattato quindi di allargarlo a tutti i dipendenti che potevano lavorare da casa. Per quei settori dove non era immediata la disponibilità di una postazione per lavorare da remoto, l’azienda ha fatto stare a casa i lavoratori in permesso retribuito fino a quando non potessero essere messi nelle condizioni di lavorare presso il proprio domicilio. Il problema rimane per i tecnici che lavorano “sul campo” che non possono certo svolgere la loro attività da casa. Questi lavoratori sono stati dotati di dispositivi di protezione personale, come le maschere professionali ffp3 (dotazione già prevista comunque per questi lavoratori). Anche per le misure di sicurezza in generale, l’azienda sembra essersi mossa in maniera adeguata, pur nelle iniziali difficoltà, anche prima del protocollo.
In Comdata è in corso l’avviamento dell’organizzazione del lavoro da casa per le operatrici e gli operatori del call center. La situazione è a macchia di leopardo, perché ogni commessa, quindi ogni cliente, ha le sue particolarità e rete dedicata e riservata. Dalla seconda metà della settimana scorsa sono iniziate le prime attività di call center in smart working, qualcuno utilizzando il proprio computer altri con computer aziendale. Nei call center, come sappiamo, gli operatori condividono le postazioni facendo i turni, non c’è quindi in azienda un computer per ogni dipendente, per questo molti lavoratori hanno messo a disposizione i propri strumenti per lavorare. La situazione è gestita, ma l’azienda è partita in ritardo e ora dovrebbe accelerare. I lavoratori erano fortemente preoccupati nelle scorse settimane, perché continuavano a lavorare troppo vicini e i loro team leader e supervisor girano per le postazioni senza mascherina né guanti.
In assenza di direttive e regole vincolanti per tutte le imprese, ognuno si è organizzato secondo i propri criteri, le aziende più informatizzate hanno attivato lo smart working fin dai primi allarmi sulla diffusione, come RGI che è da tre settimane che fa lavorare in smart working i propri dipendenti, e Olivetti-TIM che allo stesso modo ha subito organizzato lavoro e riunioni a distanza.
Ma il problema rimane per tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori che non possono lavorare da casa. E’ il caso dei lavoratori della Dayco, la più grande azienda metalmeccanica dell’eporediese sita nell’area industriale di San Bernardo di Ivrea, con più di 500 dipendenti. In Dayco la situazione è gestita, ma un po’ tesa, come in tutte le realtà. L’azienda si è resa disponibile a trovare soluzioni concordate, sta facendo già lavorare da casa dove è possibile. “Stiamo adottando tutte le procedure del decreto anche prima che uscisse, abbiamo diviso i turni da qualche settimana, teniamo a distanza di sicurezza le persone e abbiamo scaglionato la mensa, maggiori misure saranno prese in questi giorni. Servirà anche il nostro buon senso nel rispettare le regole e divieti.“, spiega Marco Lombardi, delegato FIOM.
Dove c’è un sindacato forte, sicuramente i lavoratori possono sentirsi tutelati, la preoccupazione è per tutte quelle aziende dove non c’è rappresentanza sindacale e i lavoratori rischiano di essere ancora una volta ricattabili.
Cadigia Perini