Chissà per quanti anni pagheremo questo tiro alla fune, dove la fune è la scuola pubblica italiana e a tirare di qua e di là sono parti politiche avverse, alla faccia del bene comune!
Sarà un disastro, anche (e non solo) perché l’educazione passa attraverso la relazione, non dandosi in natura una funzione senza l’altra.Qua però si scherza e ci si balocca con la vita: a unire i puntini c’è di che disperare.
1. Concluso l’anno del Grande Cambiamento – quello in cui tutti, studenti, insegnanti, dirigenti, ATA, famiglie, si erano ingegnati e avevano faticato insieme per rispondere degnamente alla catastrofe pandemica – a settembre tutti avevano ripreso a studiare in presenza, sebbene con le previste misure di sicurezza e con una parte di lavoro ancora sul web. E sempre in fiduciosa attesa che qualcuno intervenisse sulla vera causa della Didattica a Distanza – e cioè l’insufficiente, vetusto, scassato e disorganizzato sistema di trasporto pubblico.
2. Dopo una ridda di previsioni, promesse, assicurazioni, ordini e contrordini, percentuali in presenza e in remoto, direttive perentorie seguite da subitanee smentite, da novembre sono rimaste aperte solo elementari e prime medie, tutti gli altri a casa, davanti a un pc se va bene, se no a un cellulare o a un tablet – e imparare qualcosa ascoltando parole con gli occhi appiccicati per 5-6 ore a uno schermino è roba che nemmeno un novello Giobbe.
3. E va bene, anzi no ma stringiamo i denti. Si tira avanti con il miraggio del dopo-natale come fosse una pasqua di rinascita, la ministra ha giurato. E tirare avanti è proprio ciò che si fa: con fatica e abnegazione in certi casi, con stanchezza e rassegnazione per i più, alla faccia di tutti i profeti conformisti del tecno-futuro. Il secondo anno di DaD è differente dal primo: là dove c’erano normali attenzione e curiosità per ciò che è nuovo, sentimento condiviso di necessità e contributo verso la salvezza comune, ora ci sono accettazione passiva, sofferenza silenziosa, stanchezza rassegnata, introversione, apatia, perdita d’orizzonte. E fatica, fatica, fatica per quelli che ci provano, a non lasciarsi portare dalla corrente. “Prof, io non ce la faccio più, nemmeno fisicamente”. “Prof, certo che finire la quinta così, dopo quello schifo dell’anno scorso…”. E il prof invita a tenere duro, ce la faremo, c’è Natale, poi si rientra, poi riacchiapperemo le nostre vite, torneremo a ridere – mascherinati s’intende – dopo una battuta, a dissentire su un’opinione, a ingaggiare gare di eloquenza, aprire dialoghi socratici, chiudere parentesi polemiche, leggere libri, guardare occhi curiosi.
4. Infatti durante le vacanze, dopo voci e voci e voci («si apre, ma figurati, la ministra ha detto…, sì ma il presidente regionale…, ma allora il prefetto…, poi Franceschini…, e il PD…, epperò i trasporti…, i presidi non credono…») arriva L’ORARIO, nuovo di zecca come a inizio anno (e sempre frutto di ore e ore di scalpello e di lima): il segno che sì, si riprende! Al 50 percento, no addirittura al 60, ce la stiamo facendo, se possibile saremo ancora più cauti, ma torneremo a studiare insieme, prestando e restituendo attenzione, senza mai toccarci e ingolfati dietro le orrende mascherine e in una stanza sempre da arieggiare, ma va be’. Pur di riprendere a esserci.
5. Il vocio continua fino a quando, due giorni – due giorni! – prima del grande ritorno (orari stampati e appiccicati ovunque, mail di entusiasmo scambiate con colleghi e studenti, “allora si torna, dai, ci vediamo tra poco!”, “caffè allo Zac?”, “ci si trova lì davanti?”), i giochetti tra parrocchie si disvelano.
La ministra dice il 7 in classe… ma poi non proprio, cioè sì, forse. Sì, ma non tutti.
Telefonate e messaggi in chat si rincorrono: sai qualcosa? Hai capito se si torna o non si torna? Sì? No? Al 50? al 60? al 75? Il 7, l’11, il 18, il 25?
La risposta, parziale, arriva con il decreto del 5 gennaio, che come un passo di traverso conferma l’apertura, MA SOLO per elementari e medie: dall’11 al 16 gennaio le scuole superiori adottino “forme flessibili” nell’organizzazione dell’attività didattica, “garantendo almeno al 50 per cento della popolazione studentesca delle predette istituzioni l’attività didattica in presenza”.
Dunque si riprende l’11. E non il 7 perché… perché sì.
Anzi il 18, in Piemonte, perché… perché sì, lo dice Cirio, qualche ora dopo.
Anzi, forse il 18, dipenderà dai dati sul Covid, essendo la scuola purtroppamente viva e disgraziatamente improduttiva, quindi alla bisogna imputabile di responsabilità tipo diffusione pandemica.
Nel frattempo [scrivere questa sintesi è un dramma, le informazioni cambiando quotidianamente] altre regioni cambiano idea: alcune riapriranno (forse) il 18, altre il 25, in Sicilia addirittura a febbraio. La palma della stravaganza va alla Puglia di Emiliano, che ha stabilito la didattica in remoto fino al 15 gennaio, lasciando però la possibilità alle famiglie di chiedere ai presidi le lezioni in presenza. Fantastico!
6. Mentre si gioca a mercante in fiera con la scuola, i ragazzi cambiano – entriamo nel secondo anno di emergenza e tutto questo tempo per un adolescente è “formativo” – e perdono curiosità, fiducia, entusiasmo, vitalità, perfino capacità – lettura e scrittura in primis.
Non credono più a noi: vedono benissimo che quel che non si è tentato di aggiustare in 6 mesi non si sistemerà in 4 giorni, e nemmanco in 14, né forse mai.
E che non lo si voglia fare è provato da una Regione alle porte di casa – la Toscana, non la Corea del Nord – che per gli studenti ha organizzato e temporaneamente risolto la questione trasporti, organizzandosi e spendendo denaro rimborsato dallo Stato.
Quindi si può. Ma non qui. Qui si gioca a farsi sgambetti.
La pagheremo, e non avremo scuse.
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