Era la notte del 16 giugno, quando Rahhal, marocchino di 43, decide in solitudine di togliersi la vita impiccandosi con un lenzuolo alle grate della sua cella al primo piano della casa circondariale di Ivrea.
Un pensiero per Rahhal di Armando Michelizza, garante comunale dei diritti dei detenuti.
Non avevo incontrato Rahhal, prima che sabato 16 giugno decidesse di farla finita.
Non aveva chiesto di incontrarmi; per tutti coloro che ho sentito dopo, è stato un dramma inatteso e senza sintomi che potessero far pensare a quello che stava maturando nella sua solitudine.
Uno tranquillo. Apparentemente senza particolari sofferenze. Ma forse questo dovrebbe essere un segnale. Paradossalmente uno tranquillo dovrebbe destare sospetti, in carcere. In carcere è davvero strano che una persona sia tranquilla.
Comprensibilmente ci si preoccupa di chi mette in atto azioni di autolesionismo tagliandosi, ingoiando pile o altri oggetti, cucendosi la bocca, inalando gas dalle bombolette, impiccandosi….
Molto spesso sono azioni che hanno lo scopo di farsi ascoltare, di ottenere una risposta alla richiesta di trasferimento o altro.
Il giorno prima che Rahhal decidesse di lasciarci abbiamo passato tanto tempo (comandante, due agenti, la dottoressa medica presente, il sottoscritto) a ragionare e capire cosa si poteva fare per dissuadere un’altra persona detenuta che aveva “fatto la corda” (tentato di appendersi) più volte nei giorni precedenti.
Chi vuole davvero finirla riesce sempre: non c’è controllo di sorta che possa impedirglielo. Il problema non è impedirglielo: bisognerebbe, con lui, cercare motivi e risorse per creder nella vita.
E in diversi casi dovrebbe essere fuori dal carcere, perché, come mi faceva amaramente osservare lo psicoterapeuta: “ti sembra che qui sia possibile fare una terapia?”
Sì, nemmeno un aumento della presenza del personale per le terapie psichiatriche, che pur è indispensabile, non sarebbe sufficiente per praticare adeguate terapie. Una terapia ha bisogno non solo
della professionalità (indispensabile ma non sufficiente), ma anche di altre risorse, ambientali, organizzative, comunitarie… E così, spesso, l’unica “terapia” è quella che nel linguaggio del carcere si
conosce come “la terapia”, ovvero farmaci.
E così la vera “pratica antisuicidiaria” rischia di essere il controllo visivo ogni cinque minuti per impedire il suicidio. Pratica che forse aumenta il disagio dell’osservato già carico di problemi e sofferenza.
Dopo la morte di Rahhal la locale comunità islamica si è messa in contatto con quel che restava della sua famiglia nell’astigiano.
Alcuni compagni di detenzione dello stesso piano hanno protestato vivacemente per diverse ore e, lo dico volentieri, la protesta è stata gestita con intelligenza dal personale di custodia e dalla dirigenza del carcere.
E’ abbastanza insolita una protesta nell’immediatezza di un suicidio, di solito prevale la commozione, anche la rabbia ma in silenzio.
Difficile capire, ma accanto ai tanti problemi “strutturali” del carcere (non solo di Ivrea, ma di quasi la totalità del sistema penale), accanto agli aspetti “stagionali” dell’estate che è calda e con meno presenze di attività scolastiche e di volontari in vacanza fuori sede, un fisiologico rallentamento delle già lente risposte… c’è altro.
C’è che dallo scorso autunno si era diffusa una speranza, anche esagerata, di grandi novità per le persone detenute. Radio carcere arrivava a ipotizzare persino un impossibile indulto, o almeno una
riduzione delle pene. In realtà si era messo in moto il percorso dei decreti delegati, delegati dal Parlamento a giugno 2017 e che in questi giorni il nuovo Parlamento affosserà definitivamente; buttando nel cestino il lavoro di decine, centinaia di persone che nel percorso di 18 mesi degli “Stati generali dell’esecuzione penale” aveva prodotto.
Paradossalmente i titoli allarmistici dei quotidiani forcaioli “Svuotano le carceri! Migliaia di delinquenti liberi!” ecc. avevano fatto immaginare chissà quali aperture. Ora la doccia è fredda e c’è da temere che vi siano ricadute in depressione e malcontento e proteste.
Armando Michelizza
Articolo 47 della Costituzione Italiana
(…) Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. (…)