Riportiamo di seguito l’intervista con il movimento Non Una di Meno Torino pubblicata sul sito Democraticmodernity.com
Non Una di Meno rappresenta un nuovo movimento femminista e transfemminista in Italia che da ormai 8 anni scende in strada riempiendo le piazze di milioni di donne e che è stato in grado di dare una nuova voce alla storia estremamente radicale, complessa e variegata del femminismo italiano del secolo scorso, riattualizzando vecchi slogan come il “partire da sé” e trovando in alcune analisi del femminismo marxista la chiave per leggere la crisi della modernità capitalista in cui viviamo oggi.
Che cos’è Non Una di Meno e come si organizza?
Non Una di Meno è una rete femminista e transfemminista nata in Italia nel 2016 in risposta al grido delle donne Argentine del movimento Ni Una Menos. Questa nuova ondata femminista in Italia ha prodotto un movimento di massa in grado di riconnettere varie organizzazioni femministe che erano attive sui territori locali, ma senza una cornice nazionale unitaria che esprimesse obiettivi e slogan comuni. Nonostante esistano delle grosse differenze tra i territori in base alle diverse composizioni sociali e politiche, e in base alla presenza o meno di movimenti antagonisti oppure di associazioni istituzionali, oggi si riuniscono sotto il nome di Non Una di Meno circa 35 assemblee cittadine in tutto il paese.
Questo movimento si inserisce in quella che molti definiscono il “femminismo della nuova ondata”. Come valutate questa congiuntura storica?
Possiamo dire che Non Una di meno si è formata in una congiuntura storica particolare, quella di grandi mobilitazioni delle donne a livello globale che ha catalizzato differenti spinte trasformatrici che si stavano esprimendo nella società in quegli anni. Da un lato c’era la dimensione di un nuovo ciclo di lotte molto radicale a livello mondiale, come il movimento per un aborto libero, sicuro e accessibile in Argentina, come lo sciopero delle donne nello stato spagnolo, che tra il 2016 e il 2018 ha visto scioperare quasi 3 milioni di donne, come la lotta delle donne combattenti contro Daesh in Rojava, che ha aperto nuove prospettive per quanto riguarda il tema dell’autonomia delle donne. Gli anni tra il 2016 e il 2018 sono stati anni in cui le lotte delle donne hanno assunto una centralità a livello globale rispetto alla trasformazione dei rapporti di forza con il patriarcato e con il capitale, nella misura in cui riuscivano ad intaccare i rapporti produttivi e riproduttivi dimostrando una spiccata radicalità nella prospettiva di trasformazione dell’intera società, in un modo non riassorbile dal sistema patriarcale. In quella congiuntura storica si esprimeva però anche un’altra dimensione di rivendicazioni delle donne, soprattutto nei paesi del Nord Europa. Si trattava di una generale diffusione di rivendicazioni per la parità di genere che hanno attraversato anche molti movimenti istituzionali e che spesso sono stati inglobati nelle politiche di governance neoliberale. In generale, possiamo dire che la tendenza di questo tipo di movimento era quella di ricontrattare le condizioni dello sfruttamento e dell’oppressione di genere per avere un livello di vita più dignitosa contro gli attacchi quotidiani del patriarcato, come le molestie per strada, oppure il mobbing sul posto di lavoro e la violenza istituzionale, come quella dei tribunali, concepita come violenza patriarcale. Il fatto che in centro e nord Europa si stesse combattendo anche a livello parlamentare e governativo per politiche di gender equality, ha avuto un effetto nella diffusione e massificazione di questo tipo di rivendicazioni, diventate ormai patrimonio del femminismo mainstream e liberale, molto presente nella società europea e anche in quella italiana. Dunque queste due spinte, una più rivoluzionaria e l’altra più liberale, hanno prodotto una congiuntura storica che ha fatto esplodere il movimento femminista anche in Italia, dove in quegli anni si stava assistendo a drastici tagli al welfare per la salute delle donne, ad esempio attraverso il definanziamento da parte dello stato dei centri anti-violenza e dei consultori. Inoltre, in Italia quegli anni hanno rappresentato un momento chiave nel passaggio da governi di centro-sinistra estremamente liberali e globalisti a una nuova fase di governi di estrema destra nazionalisti e xenofobi, che hanno anche radicalizzato gli attacchi alla libertà delle donne riproponendo un modello tradizionalista e conservatore della donna, come madre bianca della nazione, angelo del focolare domestico, ma anche donna in carriera completamente inserita in politiche di coazione al lavoro, carrierismo e sfruttamento economico.
Dunque la dimensione globale del movimento femminista è stato un aspetto decisivo nella formazione del movimento Non Una di Meno. Come si è articolata la dimensione internazionalista di questo movimento?
Non Una di Meno nasce esplicitamente in risposta alla chiamata del movimento argentino e più in generale dei movimenti delle donne nell’America Latina, con cui la relazione è sempre stata molto stretta. Infatti, l’assunzione dello stesso nome del movimento Ni Una Menos in Europa è un fenomeno solo italiano, ma si è provato anche ad aprire la dimensione internazionalista ad altre comunità di italiane non residenti nel paese (come ad esempio nei cantoni italiani della Svizzera o nella comunità immigrata italiana in Francia, a Marsiglia e a Parigi), che si sono organizzate localmente con il nome di Non Una di Meno. Il movimento ha anche partecipato ad alcuni incontri internazionali, ma articolare una prospettiva internazionalista strutturata è molto difficile per un movimento di massa come Non Una di Meno che fa della democrazia diretta e locale e dell’orizzontalità i suoi principi cardine, presentando diversi limiti per quanto riguardo la capacità organizzativa e decisionale a livello nazionale. Ciò nonostante, l’anno della pandemia è stato quello in cui si sono implementati di più i rapporti transnazionali attraverso una piattaforma transfronteriza, con un grande protagonismo di paesi non europei (tante compagne dall’Africa, compagne curde e certamente tantissime compagne dal Sud America), che ha pubblicato il “Manifesto femminista transnazionale: per uscire insieme dalla pandemia e cambiare il sistema” perché i movimenti femministi in tutto il mondo erano quelli che avevano già annunciato il disastro che si sarebbe verificato durante la pandemia per quanto riguarda la crisi del sistema sanitario, la centralità del lavoro riproduttivo come compensazione alla mancanza di welfare e la centralità del ruolo sociale delle donne che hanno lavorato come infermiere, dottoresse e lavoratrici delle pulizie negli ospedali, ma anche in casa, permettendo di evitare il collasso completo della riproduzione sociale. Per questo il primo maggio 2021 si è lanciata una giornata di mobilitazione globale sul tema della pandemia e sulla questione della crisi della riproduzione sociale con l’esigenza di creare un movimento di donne transnazionale contro il patriarcato come origine principale della crisi sistemica ecologica e capitalistica. Un’altra mobilitazione a livello globale lanciata da questa piattaforma fu quella del primo luglio 2021 in sostegno alle lotte delle donne contro l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul. Altri esempi di come la dimensione transnazionale sia stata presente nel movimento femminista in questi anni è la diffusione della performance “Un violador en tu camino”, che è stata un esempio emblematico di pratica di lotta transnazionale delle donne e che nella sua ripetizione a livello mondiale ha reso evidente come la violenza patriarcale sia il regime egemone a livello globale e che a livello globale è presente un movimento di resistenza in grado di urlare con una sola voce. Invece, negli ultimi anni, dallo scoppio della guerra in Ucraina, è stato sempre più difficile essere in grado di articolare una posizione unitaria contro l’arrivo della guerra guerreggiata in Europa poiché il movimento si è lasciato trarre in inganno dalla falsa opposizione tra uno schieramento che pretendeva di riconoscere nella Russia una potenza anti-imperialista e uno schieramento a sostegno dell’Ucraina e delle politiche Nato-Usa, senza essere in grado di articolare una terza via per la resistenza dei popoli contro gli stati-nazione, il colonialismo e il patriarcato.
Che risonanza ha avuto la filosofia “Jin Jiyan Azadi” e le lotte delle donne in Rojhilat (Kurdistan iraniano) a partire dal femminicidio di Jina Amini nel 2022 nel movimento italiano?
Non Una di Meno ha sempre avuto molte relazioni con il movimento delle donne curde attraverso contatti con reti di solidarietà come Rete Kurdistan e con la diplomazia delle donne. Lo slogan “Jin Jiyan Azadi” è sempre risuonato nei cortei di Nudm, anche grazie al fatto che negli anni sono state organizzate molte iniziative per diffondere l’ideologia di liberazione della donna, e per organizzare campagne di solidarietà, soprattutto durante gli attacchi della Turchia come quello ad Afrin nel 2018. Anche il ruolo giocato dalle internazionaliste italiane, soprattutto di chi ha preso parte alle unità di difesa delle donne (YPJ), è stato fondamentale nel costruire ponti e alleanze tra le donne italiane e le donne curde. Le mobilitazioni in Rojhilat hanno dato una rinnovata potenza alla filosofia “Jin Jiyan Azadi” che si ha sicuramente contribuito a dare forma alla comprensione che il movimento italiano delle donne ha del concetto di autodifesa, come presupposto necessario alla costruzione dell’autonomia delle donne nella società, per difendere il cambiamento che proviamo a costruire nella società, per dare una risposta organizzata agli attacchi patriarcali che subiamo tutti i giorni e per non lasciare nessuna da sola. Come dice lo slogan “se toccano una, rispondiamo tutte”.
Quali sono le linee di intervento del movimento Non Una di Meno?
Nelle prime assemblee nazionali in cui si andava a formare la rete, si è deciso che la principale linea di intervento sarebbe stata il contrasto alla violenza maschile contro le donne e alla violenza di genere, cercando di sviluppare una prospettiva di lotta in termini strutturali e non emergenziali, che concepisse la violenza del patriarcato come matrice originaria di oppressione sistemica. Si è sempre cercato di proporre un’analisi intersezionale che tenesse la questione del genere insieme alla questione della razza e della classe, che permettesse di agire da un punto di vista mobilitativo e organizzativo su diversi temi. Fin dall’inizio dunque il movimento si è strutturato sia a livello nazionale che a livello locale dividendosi in gruppi di lavoro che si occupavano di percorsi di fuoriuscita dalla violenza maschile sulle donne, di questioni giuridiche, di lavoro, welfare e reddito di autodeterminazione, diritto alla salute sessuale e riproduttiva, di educazione e formazione, di migrazione, di narrazione della violenza attraverso i media, di sessismo nei movimenti e di femminismo, ecologia e territorio. Tra tutti questi temi, negli anni ha avuto una rilevanza eminente il tema della salute e del diritto all’aborto, che in Italia non è garantito a causa di leggi compromissorie con organizzazioni cattoliche antiabortiste legate strettamente al governo.
Come si articolano tutte queste questioni in un orizzonte comune nella prassi?
Già dalla nascita del movimento si è identificato lo sciopero come pratica di lotta principale. Noi abbiamo iniziato sulla spinta delle argentine nel convocare uno sciopero contro la violenza di genere e la violenza contro le donne, anche se non è stato facile sviluppare una prospettiva di lotta non prettamente vertenziale. Siamo partite dallo slogan “se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo”, perché se non valiamo, se le nostre esistenze sono sempre sotto l’attacco della violenza patriarcale e capitalista, noi non produciamo perché non vogliamo riprodurre questo sistema che ci uccide. Questo è un discorso estendibile a chiunque perché le condizioni di vita e di lavoro sono talmente disastrose che il fatto di sottrarsi dal sistema perché non ti viene riconosciuto niente e perché non c’è modo di avere una vita dignitosa può essere uno stimolo all’attivazione per una trasformazione radicale di quello che viviamo. Lo sciopero femminista quindi non è un evento, ma è un processo, che consiste nell’astensione dal lavoro dentro e fuori casa, dal lavoro produttivo e riproduttivo. È un processo che vive 365 giorni all’anno perché è un processo di sottrazione dai ruoli sociali imposti e trasformazione radicale dei destini che la società attribuisce in base al genere. Il movimento femminista cerca poi di incanalare questo processo organizzativo verso la data dell’8 marzo, quando si organizzano grandi manifestazioni in ogni città, ma in questi anni difficilmente si è riuscite a praticare uno sciopero massiccio dei settori produttivi o dei servizi perché i grandi sindacati confederali non hanno mai voluto offrire una copertura sindacale per lo sciopero delle donne. Ciò non ha mai fermato le donne dallo scendere in strada l’8 marzo e dall’agire forme di “sciopero sociale”, dai consumi, dal lavoro riproduttivo, ma il tema di come sviluppare infrastrutture che sostengano e organizzino il movimento di massa è un tema aperto in Italia. Quello che manca sono delle strutture autonome in grado di organizzare le donne in tutti gli ambiti della vita e in ogni ambito della società.
Ci sono delle connessioni tra lo sciopero femminista e le riflessioni del femminismo marxista o le lotte per il salario al lavoro domestico?
Io credo che Silvia Federici e Mariarosa Dalla Costa rispetto a questo tema siano le madri fondatrici e dei punti di riferimento imprescindibili rispetto alle analisi che facciamo sul lavoro riproduttivo e sul lavoro domestico. Dalla Costa quando elaborava le sue riflessioni lo faceva analizzando un contesto sociale in cui la divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo era molto netta e quindi era molto evidente distinguere tra il lavoro fuori casa nelle fabbriche e il lavoro dentro casa delle donne. Sono discorsi validi e attuali ancora oggi per la lucidità con la quale sono stati elaborati, anche se la realtà del capitalismo si è molto trasformata negli ultimi 50 anni perché la sfera della riproduzione del capitale ha quasi inglobato tutti gli ambiti della vita. Per questo negli ultimi dieci anni abbiamo visto a livello mondiale che la questione del lavoro riproduttivo ha assunto una centralità teorica decisiva e ciò ha mostrato a livello globale come la lettura femminista sui processi di accumulazione del capitale fondato sul lavoro delle donne ci permette di analizzare il funzionamento del capitalismo in generale, non solo per quanto riguarda il lavoro femminile o femminilizzato, ma in generale rispetto alla vita che conduciamo nel sistema capitalista. Quindi lo sciopero assume il senso di pratica di interruzione dei processi di accumulazione di capitale e di attacco alla vita in generale, ma anche come un tentativo di ridare significato a una pratica di lotta che negli ultimi decenni ha perso di potenza trasformativa e di efficacia nella sfera produttiva.
Quali sono le storie del movimento delle donne che più hanno un impatto sulla politica e la visione di Non Una di Meno?
L’ Italia ha una storia politica molto peculiare a partire dal periodo dalla resistenza partigiana contro il nazifascismo, soprattutto per quanto riguarda la politica dei movimenti extraparlamentari ed esterni ai percorsi istituzionali. Questa storia è un filo rosso che dura fino ad oggi e che ci collega alla resistenza attraverso altre esperienze come le lotte studentesche del ‘68, i movimenti operai e i movimenti delle donne. In particolare, se non ci fosse stato il movimento femminista degli anni 70 non saremmo esistite noi. Purtroppo una parte di quello che viene chiamato comunemente “femminismo della seconda ondata” si è istituzionalizzato negli anni successivi, e un pezzo di quel movimento fa parte oggi di gruppi transfobici. Ciò è dovuto a molti fattori, tra cui le trasformazioni che sono avvenute nella società italiana durante la ristrutturazione neoliberale degli anni ‘80, che ha ridotto le riflessioni sull’identità politica e sociale della donna a discorsi accademici incentrati sulle identity politics, estremamente escludenti e limitati dal punto di vista dell’azione politica nella società. Tuttavia, se negli anni ‘70 non ci fosse stato un movimento delle donne che si è separato dagli ambienti misti e che ha rivendicato uno spazio autonomo, oggi non avremmo molti strumenti che ci permettono di scardinare le dinamiche sessiste della società e dei movimenti antisistema. Negli anni ‘70 le donne hanno imposto ai movimenti extraparlamentari misti, come ad esempio Lotta continua, la necessità di riconoscere che le rivendicazioni delle donne fossero questioni politiche perché il personale – la dimensione della vita delle donne – è politico: è un ambito di lotta dove emergono tutte le contraddizioni della società, ed è da lì che bisogna partire.
Come è stato possibile che Non Una di Meno abbia avuto un impatto così forte nella società e sia riuscita a diffondere una cultura anti patriarcale così forte e ampia?
Credo che la pratica femminista del partire da sé, e del rendere politico il partire da sé, sia una pratica capace di avvicinare le persone all’attivismo e al mondo della politica. Partire dai propri bisogni e dai propri desideri, dal proprio stato emotivo, dal lavoro, dalla famiglia, dalla coppia: il fatto di rendere politici questi aspetti relegati all’ambito privato e personale, il fatto di condividere la vita con altre persone, è stato geniale! Quando inizi a percepire che non è vero che i tuoi problemi personali in quanto donna sono fatti tuoi e te li devi sbrigare da sola, ma che invece hanno una rilevanza collettiva e che li si può affrontare insieme, senza partire dai massimi sistemi, ma partendo da te e da quello che la società dice che non ha importanza, allora lì si inizia un processo di trasformazione che è veramente trasformare e liberare la vita. Tristemente la violenza è una dimensione che ogni donna sperimenta nella sua vita e che attraversa come esperienza individuale vissuta nella colpa e nella responsabilità. Possiamo dire che Nudm ha avuto successo soprattutto nella vita delle persone che sono cambiate radicalmente dopo che hanno incontrato il femminismo. Ciò può avvenire perché esci dalla solitudine, perché si crea solidarietà e sorellanza, si crea un nuovo modo di stare al mondo nei contesti che si vivono di solito. Attraverso il femminismo ho capito mille cose, ma soprattutto che non si può trasformare il mondo senza fare un lavoro su sé stesse: è stato dirompente, è stata una grande fatica e un’immensa gioia. Quindi il femminismo serve innanzitutto per trasformare la tua vita e le tue emozioni, per non sentirsi più sole, per non sentirsi più matte o sbagliate. La trasformazione della vita è la forma di autodifesa migliore contro la violenza patriarcale e Non Una di Meno è stato un movimento di trasformazione attraverso un’autodifesa esistenziale collettiva e organizzata.
Chiara Cerrutti su Democraticmodernity.com