“Non siamo carne da macello” è l’urlo degli operai delle fabbriche per il ritardo e l’insufficienza delle restrizioni nel mondo del lavoro. Il commento di Federico Bellono.
Anche se faccio il sindacalista isolare il tema del rapporto tra il coronavirus e i lavoratori è quasi impossibile perché siamo precipitati a 360° in una situazione che non avevamo mai visto, e gli eventi da fine febbraio hanno preso un’accelerazione sempre più inarrestabile. Dopodiché è vero che non tutti si trovano a vivere allo stesso modo questa situazione e i lavoratori – soprattutto gli operai delle fabbriche – si fanno delle domande quasi ovvie: perché noi dobbiamo lavorare ed altre categorie economiche no? Perché molti impiegati possono lavorare da casa e noi invece siamo costretti a lavorare in condizioni che ad oggi in buona parte non sono in regola con quanto prescritto? Cosa c’entriamo noi con i servizi essenziali? E come mai pure in Cina hanno chiuso le fabbriche?
In questo frangente il lavoro – dall’industria ai call center, dal mondo della logistica alla grande distribuzione – si conferma un luogo di contraddizioni, di differenze, di discriminazioni. E da qui bisogna partire, e dal fatto che in questi giorni c’è stata – ed è tutt’ora in corso – una discussione non solo tra i sindacati e le imprese ma anche all’interno del sindacato, che non è tanto una discussione teorica sul rapporto tra diritto al lavoro e al reddito e diritto alla salute, quanto il tentativo, molto difficile da realizzare, di trovare un equilibrio che consenta di tenere insieme questi due diritti, sapendo però che a mio parere ce n’è uno che sopravanza nettamente l’altro, ed è il diritto alla salute.
Il diritto alla salute è la priorità
Io avrei condiviso soluzioni più radicali, ma anche la discussione di queste ore in merito al protocollo definito dal governo con le organizzazioni sindacali e le principali organizzazioni imprenditoriali, a partire da Confindustria, è imposto da una realtà di fatto che ha costretto tutti ad agire di conseguenza: i lavoratori in modo magari confuso hanno collettivamente preso coscienza che non era giusto lavorare a qualsiasi costo e che tutte le precauzioni e i consigli di cui sono piene le reti televisive – l’invito a stare a casa Innanzitutto – non possono poi andare in plateale contraddizione con la realtà di chi tutti i giorni è costretto a lavorare. Quindi a differenza di altre volte chi ha discusso in questi giorni ha dovuto farlo perché aveva il fiato sul collo dei lavoratori.
Non a caso anche laddove la produzione non è stata fermata, anche là dove non ci sono stati scioperi il tasso di assenza dal lavoro delle persone è schizzato a percentuali altissime, e si è trattato di null’altro che di una forma di autodifesa e una reazione ad un decreto percepito come ingiusto. Occorre tener conto che il sistema delle imprese, in particolare Confindustria, avrebbe voluto semplicemente una sorta di vademecum per le aziende che intendessero adottarlo, e quindi uno strumento sostanzialmente inutile, anche perché non abbiamo tanto il problema di regolare la situazione là dove c’è una presenza sindacale forte o dove i lavoratori hanno comunque la forza di farsi valere, oppure le stesse aziende agiscono con responsabilità, ma anche laddove i lavoratori sono deboli e quindi si trovano semplicemente alla mercé delle imprese. Quindi il protocollo va innanzitutto applicato e anche implementato per quelle parti che non sono sufficientemente specificate: questo è un lavoro che andrà da subito svolto a livello locale, chiamando le istituzioni e gli enti preposti – dal prefetto ai Comuni, alle stesse ASL – a svolgere un ruolo di regia e di controllo insieme a noi e alle imprese, segnalando e intervenendo in tutte quelle situazioni dove la sicurezza del lavoratori non è garantita.
Tutti gli aspetti del protocollo vanno approfonditi, però ce ne sono alcuni importanti che è bene evidenziare: il fatto che in assenza di adeguate garanzie l’attività può essere sospesa e la costituzione in tutti i luoghi di lavoro di comitati che devono vigilare sull’applicazione del protocollo stesso e in cui sono presenti anche i rappresentanti dei lavoratori.
Chiaramente vanno definite le modalità con cui la mancata applicazione del protocollo andrà sanzionata, così come regolare la possibilità di intervento e di monitoraggio anche in quelle realtà in cui non è presente il sindacato e stabilire quindi le modalità con cui i singoli lavoratori possono pretendere l’applicazione del protocollo stesso: tutte questioni che naturalmente già hanno segnato la quotidianità di questi giorni, soprattutto nelle tante imprese in cui ci sono stati casi di contagio, che hanno particolarmente preoccupato i lavoratori e costretto anche le aziende a fare fino in fondo la propria parte. Senza perdere di vista un quadro generale che vede tante categorie a rischio e in prima linea, dai lavoratori della sanità, a quelli della filiera alimentare, a quelli dei trasporti. Fino arrivare alle persone che in casa non ci possono stare perché non ce l’hanno.
Inevitabilmente in questo momento siamo schiacciati sull’emergenza, ma è chiaro che quanto sta avvenendo in questi giorni cambierà molte cose, e credo che quanto prima, appena l’emergenza si sarà un po’ allentata, occorrerà provare a ragionare su una prospettiva più lunga.
Federico Bellono (Cgil Torino)