Martedì 18 aprile Carlo Pestelli, autore del libro Bella Ciao. La canzone della libertà, sarà a Ivrea (Sala Dorata del Municipio, ore 21). Qui una recensione di Franco di Giorgi
Per parlare del bel libro di Carlo Pestelli su Bella ciao. La canzone della libertà (add editore, Torino 2016) comincerei da Paco de Lucia, cioè da una delle tante figure cui egli fa riferimento per provare ad evidenziare l’essenza di quel canto popolare. Va anzitutto detto che, consapevole della sua leggerezza, questo volumetto non ha certo la pretesa di ricostruire e di esaurire la densità storica di quella canzone, al fine di individuarne le radici e di fissarne quindi l’origine; né tanto meno esso vuole presentarsi come una puntigliosa analisi semantica o filologica del testo e della musica. Anche perché un lavoro genealogico di questo genere, specie su opere popolari come Bella ciao, opere che presentano una «multidimensionalità» (p. 95) e un «interlessico universale» (p. 28),oppure, per fare un altro celebre esempio, su opere religiose come lo Stabat Mater,non può che essere destinato ogni volta all’inconcludenza – come aveva a suo modo paradigmaticamente avvertito già Nietzsche a proposito della Genealogia della morale. E di ciò l’autore è del tutto consapevole, giacché«un canto popolare – dice – è il frutto di lasciti e aggiunte progressive di molte genti in movimento» (p. 40). È, si potrebbe anche aggiungere, «un’opera compiuta dallo spirito dell’umanità», poiché «come tutte le più grandi opere, [Bella Ciao] appartiene al patrimonio plurisecolare dell’umanità».
Tuttavia, sebbene in forma ridotta e per brevi cenni, Pestelli compie ugualmente ed egregiamente questi tentativi. Ma, ripeto, quello che più sembra interessargli e che tenta di mettere più volte in evidenza, è l’essenza di quella canzone. E per farlo, come si è detto, egli propone come esempio, tra le molte altre, la figura del celebre chitarrista spagnolo di flamenco. E io direi non solo per via di una particolare contaminazione strumentale,ma anche per una contaminazione culturale in senso lato. Nelle sue esibizioni, Paco, ci informa infatti Pestelli, oltre alla classica chitarra, userà a un certo punto anche il cajón peruviano. Si pensi a Zyryab: un brano del 1990 nel quale la contaminazione deriva pure dal jazz. Zyryab, tra l’altro, significa “uccello nero”, appellativo che era stato dato a un musicista arabo-spagnolo del IX secolo, il quale aveva fortemente influenzato la musica e la cultura spagnola, specialmente quella andalusa, creando così quel meltingpot, quel crogiolo culturale il cui spirito vive ancora oggi proprio attraverso il flamenco di Paco. Ascoltando infatti qualsiasi brano di questo virtuoso della chitarra non si può non avvertire la stratificazione o, come dice Pestelli, la compenetrazione tra culture diverse: da quella tipica spagnola a quella araba, a quella gitana, a quella sefardita. La stessa percezione si ha peraltro in rapporto alla musica ebraica successiva alla Reconquista spagnola, una musica attraverso cui il popolo della diaspora esprimeva la nostalgia dalla patria lontana utilizzando strumenti, lingue e inflessioni tipiche delle popolazioni con le quali esso ha dovuto convivere.
Davvero interessante e suggestiva a tal riguardo l’opera del poliedrico ensemble Sensus, il quale ripropone musiche di comunità ebraiche del Mediterraneo. Si veda ad esempio Aman Sepharad (Ahi Spagna, addio), un loro cd del 2013. Le musiche proposte dagli artisti di Sensus sono antichi canti profani femminili, allegri e malinconici, di origine sefardita (soprattutto andalusa), cioè derivanti dagli Ebrei spagnoli (Sefarad o Sfaràd è il nome con cui il popolo ebraico chiamava e chiama la Spagna), motivi che essi hanno continuato a ripetere e a tramandare in judezmo (o ladino spagnolo, una lingua giudeo-spagnola formata da molte altre lingue innestate sull’antico castigliano) attraverso le inevitabili influenze linguistiche e quindi anche musicali e armoniche dei paesi in cui hanno dovuto trovare sistemazione (Marocco, Turchia, Grecia, Bosnia, Bulgaria, etc.). Ora, se, come scrive Proust nella Recherche (La prigioniera) – e con lui ovviamente non ci allontaniamo affatto dal tema qui trattato, ma anzi lo approfondiamo ancora di più –, se dunque, come sostiene il romanziere ebreo-francese, la musica è inflexion de l’être (inflessione dell’essere), allora possiamo dire che la musica sefardita, così come si può sentire dal trio Sensus, risente di una doppia inflessione musicale: da un lato risente della propria cadenza, cioè di quella andalusa (quella che non può sfuggire ad un orecchio attento e che si avverte persino nello struggente flamenco del compianto chitarrista di Algeciras, Paco de Lucia), e dall’altro risente altresì degli accenti e delle armonizzazioni tipiche dei paesi in cui di volta in volta – di diaspora in diaspora, di golàh in golàh, di espulsione in espulsione, di gherùsh in gherùsh, di cacciata in cacciata – sono stati ospitati. Infatti, sebbene raccontino di storie d’amore e di momenti allegri, queste delicatissime melodie non possono tuttavia nascondere quella sottile e penetrante malinconia, quella inestinguibile e commovente nostalgia per la propria terra che in qualsiasi epoca ogni esule prova. Sono musiche che vengono giocate (spielen in tedesco significa sia giocare sia suonare) soprattutto sui classici mezzi toni che distinguono le modulazioni occidentali da quelle orientali: nelle prime hanno creato la differenza tra la tonalità maggiore e quella minore, che verrà del tutto superata con la musica atonale; nelle seconde invece questa differenza non è affatto contemplata, sicché quando esse risuonano nel nostro orecchio, abituato com’è ad emozionarsi (con Goethe e Schopenhauer) e ad esprimere la musica a seconda del cambiamento dell’accordo di terza maggiore in terza minore, in noi avviene come una leggera confusione, un piacevole stordimento con cui essa sembra rapirci, portarci via, verso quell’altrove ignoto che Rilke temeva e amava sopra ogni cosa quando si metteva ad ascoltare musica, e non solo quella dissacrante dei musicisti a lui contemporanei. Se poi, in preda alle vibrazioni ritmiche generate in noi dalla musica sefardita, proviamo a tendere ancora di più l’orecchio verso quelle arie del passato e lo avviciniamo nel presente mediante la nostra coscienza al loro futuro, ossia alla memoria della Shoah, in essa, in questo mélos che è élegos, ci sembra infine di cogliere persino l’eco amara di una shiràh, di un canto ebraico, forse del kaddish, del canto funebre che Yitzhak Katzenelson innalzò per la distruzione del popolo ebraico.
È esattamente in questa commistione culturale che risiede l’essenza spuria di Bella ciao, come pure di ogni opera popolare rimasta nella memoria collettiva. «L’interessante di questa storia – cioè di quella raccontata in questo canto, dice inoltre Pestelli – è il procedimento di modifiche a catena di uno stesso fortunato modulo musicale, che è poi la stessa procedura della maggioranza dei canti a diffusione orale» (p. 75). Come ad esempio Fior di tomba, per quanto concerne le parole: testo che nel XIX secolo Costantino Nigra fa risalire ai secoli XV-XVI, che è emerso amaramente dalle risaie del vercellese e che è ricomparso eroicamente come canto di libertà nei bivacchi dei partigiani italiani. Nella canto di Bella ciao risuonano mille storie d’amore e morte, ricorda Pestelli (p. 44), proprio come quella che Beppe Fenoglio racconta in Una questione privata. Quanto alla musica, pare che la cellula originaria sia riconducibile a Koilen (“Carbone”) una musica klezmer registrata negli Stati Uniti nel 1919 da un fisarmonicista russo-zigano-cristiano, MishkaZiganoff. L’intonazione malinconica di quest’aria si perde naturalmente nella notte dei tempi e dello spirito dei popoli.
Sulla scorta di ciò si può ben dire, dunque, secondo Pestelli, che a nessuno in particolare è dato tenere le fila di quest’opera (p. 97). Un’opera che è una «coagulazione di molte voci su cui si innestano sempre nuovi contributi» (p. 76), una «piccola magia fonosintattica» (p. 81) che appartiene non solo al tempo e alla storia, ma anche e soprattutto ai popoli che nel tempo hanno fatto la storia opponendosi alla repressione della loro libertà. Bella ciao, un «successo internazionale – scrive giustamente Pestelli –, una musica del mondo, cantata come un inno senza tempo da chi ha a cuore la libertà» (p. 103). Per questo motivo uno come Mazzini avrebbe sicuramente amato Bella ciao – «canzone globale e alternativa insieme» (p. 105) –, poiché, com’è noto, lui, cattolico convinto, sosteneva che era dovere di tutti i popoli ribellarsi all’oppressione. Dio ha creato l’uomo libero e quindi l’uomo ha non soltanto il diritto, bensì il dovere etico di lottare per la libertà. Quando il patriota genovese – specie nei Doveri dell’uomo (1860) – parla dell’uomo non pensa già infatti all’individuo che vive in una nazione e con la morale propria di tale nazione; no, egli pensa all’uomo europeo, all’individuo considerato come il risultato della commistione di tutte le culture europee. È anche nella Giovine Europa (1834), infatti, che andrebbero colti i semi per una cittadinanza europea: la kantiana allgemeineVereinigung der Menschheit, costituita da «gruppi di popolazioni miste» proposti da Hannah Arendt e da ultimo anche da Zygmunt Bauman, recentemente scomparso. È proprio infatti per l’essenza spuria, per l’appartenenza al popolo dello Stabat Mater che Mazzini, uomo d’azione per eccellenza, amava e si commuoveva ascoltando quell’opera nella versione pergolesiana, speciedurante il suo esilio a Londra. Bella ciao, ricorda infine anche Moni Ovadia nell’Introduzione, è sempre stata un’«elegia del presente» (p. 137). Tuttora, a chi l’ascolta, essa sembra suggerire: lotta, agisci, «non lasciare che il tempo svilisca il vigore della memoria» (p. 126).
Franco di Giorgi