Nonostante i divieti, nonostante la paura e nonostante la narrazione tossica dei grandi media, il 5 e il 7 ottobre le piazze di Roma e Torino in solidarietà con Palestina e Libano ci sono state. E per il solo fatto di esserci state, hanno vinto.
Non sono state esenti di criticità, questo è vero, ma c’era da aspettarselo visto il clima di terrore creato ad arte da polizia, giornali e politica nelle settimane precedenti: vietate dalla questura perché la data era troppo vicino al 7 ottobre, giorno che segna sia l’attacco di Hamas sia l’inizio della campagna genocidaria di Israele. Dipinte come antisemite e filo-islamiste dai media, che hanno dimostrato ancora una volta la propria palese parzialità, oltre che una banalizzazione del reale al limite del ridicolo. Tutto questo mentre è in corso l’attualizzazione del ddl sicurezza, il disegno di legge più repressivo dal dopoguerra ad oggi, peggiorativo persino rispetto al fascista codice Rocco, che potrebbe compromettere irreversibilmente il già traballante diritto al dissenso nel nostro Paese.
Eppure le manifestazioni non solo sono avvenute, ma son state anche incredibilmente partecipate: più di 10mila persone a Roma, quasi 3mila a Torino. Migliaia di persone, diverse per età, etnia e percorso politico hanno ritenuto importante esserci, anche a costo di mettere a rischio la propria incolumità e la propria fedina penale. Un rischio concreto: nelle ore precedenti la manifestazione di Roma le forze di polizia hanno eseguito più di 1600 controlli, fermando tutti i mezzi diretti nella capitale e distribuendo fogli di via di 4 anni come coriandoli a Carnevale, anche nei confronti di attivisti appartenenti a movimenti da sempre dichiaratamente non violenti come quello ecologista. La manifestazione, autorizzata infine in maniera statica visto l’enorme numero di persone, si è trovata a fronteggiare un enorme dispiego di forze di polizia che hanno circondato i partecipanti da ogni lato, in un clima simile a quello del famigerato G8 di Genova, per impedire il formarsi di un corteo per le vie della città. Che dei disordini accadano quando chiudi 10mila persone come topi in trappola, si potrebbe definire abbastanza prevedibile.
Ma questi infiltrati c’erano o non c’erano?
Fin dai primi momenti della manifestazione, la voce di presunti infiltrati è rimbalzata su diversi account social, anche con un certo seguito. Una voce a sua volta smentita da altrettanti partecipanti, ma che necessita di essere indagata.
Difficile capire cosa succeda davvero durante un corteo, ma il tema degli infiltrati, che ciclicamente, da Genova 2001 a oggi, rispunta fuori ogni volta che una manifestazione di grandi dimensioni finisce in scontri, è un’argomentazione scivolosa. Innanzitutto quando una manifestazione viene indetta non da un partito, ma da molteplici sigle composte al loro interno da tantissimi individui, ognuno con una differente sensibilità, definire cos’è un infiltrato diventa complicato: non esiste un patentino del buon manifestante, nessuno ha firmato un contratto per venire, e spesso l’organizzazione è priva di un servizio d’ordine tale da dettare regole sul comportamento da tenere.
Nonostante la comprovata presenza di sparuti fascisti, appartenenti per lo più a Forza Nuova, bizzarra sottocorrente minoritaria del neofascismo italiano che l’Olocausto ancora se lo rivendica apertamente, il più delle volte quelli che vengono individuati come infiltrati sono in realtà frange di manifestanti che non escludono lo scontro come tattica. Considerando anzi dovuto, in particolare in situazioni come quella del 5 ottobre, almeno un tentativo di uscire dall’accerchiamento poliziesco.
Più che buoni o cattivi, infiltrati o meno, la questione riguarda uno scontro di sensibilità: da una parte chi ritiene che gli scontri delegittimino le manifestazioni, soprattutto mediaticamente, dall’altra chi ritiene che il genocidio in atto necessiti prese di posizione più radicali (del resto i giornali non parlerebbero bene della manifestazione nemmeno se i partecipanti lanciassero corone di fiori). Vi è poi un discorso di opportunità, tra chi vorrebbe evitare la macelleria messicana, eventualità oggettivamente rischiata il 5 ottobre a fronte sia dell’atteggiamento della polizia sia dell’impreparazione di una buona maggioranza dei manifestanti, e chi ritiene invece l’eventuale degenerazione degli scontri un sacrificio necessario, la libbra di carne da immolare sull’altare della lotta al genocidio attualmente in corso, un prezzo tutto sommato ragionevole da pagare a fronte degli oltre 40mila morti palestinesi dell’ultimo anno.
Lo scontro tra queste due sensibilità, fomentato da media e politica, tende purtroppo a creare forti spaccature all’interno dei movimenti, che spesso finiscono col decretarne la morte. Al contrario, nei pochi casi in cui le due visioni hanno trovato una sintesi, il risultato è stato un rafforzamento: esempio su tutti il fronte No Tav in Val Susa, che a distanza di più di 30 anni e nonostante le alterne fortune mantiene a tutt’ora una sua vitalità e una capacità di rapportarsi con platee molto diverse tra loro.
Il tramonto dei vecchi media e l’alba di quelli nuovi
Un tema che invece mette d’accordo l’intero movimento è la totale perdita di credibilità dei media tradizionali. Se già non godevano di grande simpatia, dall’inizio del genocidio i giornali si sono dimostrati niente di più che un megafono del sionismo: da un anno a questa parte abbiamo potuto assistere a una continua glorificazione della società israeliana, a nauseanti accuse di antisemitismo e filo islamismo verso chi fino a ieri ha sempre combattuto contro il razzismo e a favore dei più deboli, a una banalizzazione feroce della complessità delle proteste e alla ricerca spasmodica del particolare scabroso buono per un bel titolo shock. Tutto questo mentre da un anno Israele perde sempre più credibilità internazionale, compiendo quasi quotidianamente crimini di guerra e accusando di antisemitismo le stesse Nazioni Unite, mentre ora invade il Libano, stato sovrano, e minaccia una guerra con l’Iran di proporzioni apocalittiche.
Al contrario, da oltre un anno chiunque sia interessato può ricevere un flusso praticamente ininterrotto di video e immagini di morte e distruzione provenienti dalla Palestina, trasmesse da account social e media indipendenti che cercano di mostrare al mondo il vero volto del conflitto. Voci che spesso si è tentato di mettere a tacere, chiudendo le pagine o eliminando fisicamente i giornalisti, uno dei crimini di guerra preferiti dall’esercito israeliano.
Chi queste immagini le ha viste non riesce più a fare finta di nulla, e nessun ennesimo servizio strappalacrime di Repubblica sul 7 ottobre potrà mai cambiare questo fatto. È il vantaggio della modernità, che ci permette di condividere in tempo reale tutto ciò che ci succede, sia questo un gatto che si rincorre la coda o la casa dei vicini sventrata da una bomba. Con tutti i limiti che comportano, dall’uso dell’IA per creare video falsi alla frammentazione della narrazione e relativa perdita di autorevolezza, questi nuovi media rappresentano oggi il futuro dell’informazione, in particolare riguardo i temi maggiormente invisi al potere. Quando si parla di una protesta, diviene insomma ogni giorno più chiaro che i nuovo media siamo noi, e che l’unica possibilità di vederci riconosciuta la nostra piccola fetta di verità è narrarla noi stessi.
Lorenzo Zaccagnini