Un serie di riflessioni da Marsiglia
Oggi nel primo pomeriggio sono uscita per una passeggiata fino al MUCEM, il museo di Marsiglia costruito dentro e vicino al forte Saint Jean, che dà sul mare. In Francia dobbiamo compilare, per uscire, un’attestation de déplacement dérogatoire, facilmente scaricabile da internet; tra les motifs de sortie è possibile scegliere l’opzione “spostamenti brevi, nel limite di un’ora quotidiana e di un raggio massimo di un kilometro intorno al domicilio”, per attività fisica o per una passeggiata. Arrivata alle mura del forte, sul marciapiede che costeggia l’acqua, ho visto una scritta: “naturelle arrogance”, che subito ho (sovra)interpretato come “arroganza naturale”, dandole il senso di “arroganza della natura” (quando invece molto probabilmente il senso della scritta vuole essere, letteralmente, “naturale arroganza”: in linea con i sentimenti dei vissuti marsigliesi). Fresca della visione dei documentari di Herzog, ho dato avvio a una rapida catena di pensieri sulla potenza della natura, e ho incominciato a fotografare tutto ciò che intorno a me era elemento naturale, nel mezzo del porto di Marsiglia.
Piante con spesse foglie ricoperte da lanugine e piccoli fiori gialli, che crescono rigogliose sulle calde mura del forte, banchi di minuscoli pesci argentati che stanziano vicino alle rocce, ai muretti e alle barche, gabbiani che urlano nel cielo blu. Volevo insomma contemplare e immortalare l’arrogante – quanto ostinato – manifestarsi della natura in città (poche settimane fa, nel mare delle Calanques, a fianco di Marsiglia, si sono avvistate delle balene). Sulla strada del ritorno sono ripassata nello stesso punto per fotografare, infine, la famosa scritta, responsabile di cotante riflessioni ed emozioni. Su quel pezzo di marciapiede era seduto un uomo che pescava. Pochi istanti dopo il signore si è alzato: un pesce aveva abboccato alla sua esca. Velocemente mi sono avvicinata alla scritta, per fotografarla. Al suo fianco ora c’era un grande sacchetto di plastica che si muoveva a scatti, il pescatore vi aveva appena messo dentro il pesce pescato, vivo. Convinto che volessi fotografare il pesce, con un certo orgoglio l’uomo ha estratto l’animale dal sacchetto, che era chiuso con un nodo, e lo ha appoggiato per terra. Io ho filmato tutta la scena, e infine il pesce agonizzante ai piedi delle mura del forte.
La parola “arroganza” deriva dal latino ad rogare, espressione che indica (richiesta di) appropriazione di qualcosa su cui non si possono vantare diritti. L’arroganza presuppone dunque una certa dose di superbia e di presunzione, oltre che di violenza. Il gesto arrogante, il gesto di voler arrogarsi qualcosa, è un gesto che intende superare un limite, un confine, qualcosa cioè che è al di fuori delle proprie possibilità intese come diritti.
Insieme al nome del virus, credo che quella di “confinamento”, o “confino”, sia una delle parole più utilizzate – dette, scritte, pensate – in questo momento. In questo senso il concetto di confine si fonde con quello della limitazione di una libertà individuale, quella di movimento, e per molti di noi coincide fisicamente con le mura delle nostre case. Dal momento che le parole non solo sono importanti, ma sono soprattutto fondamentali (in senso letterale), mi sembra che vi sia sempre necessaria una riflessione critica. Non sto parlando per forza delle parole della retorica della “politica”, su cui si stanno già scrivendo fiumi d’inchiostro – in particolare in Francia, e a ragione, vista la preoccupante deriva bellica del lessico macronista, per di più in un paese in cui è ancora in vigore lo stato di emergenza deciso dopo gli attentati del 2015 (che è causa di un esorbitante numero di morti per mano della polizia, come sa bene chi vive nei quartieri nord di Marsiglia). Parlo di quelle parole che proprio in quanto quotidiane, e in questo caso anche un po’ fruste, fanno parte del nostro habitus di non-pensiero: le diciamo e le ascoltiamo senza rifletterci, le diamo per scontate. È in questo modo che esse, sottilmente, si insinuano nei nostri automatismi verbali; le parole sono scivolose e, come ci dice Michel Foucault, il linguaggio è (anche) potere, dunque può essere pericoloso se non problematizzato. Ecco perché prima parlavo di riflessione critica. Ed ecco perché, tornando a noi, vale la pena di riflettere, soprattutto in questo preciso momento, sul confino e sul confine (inteso come limite).
C’è una bella parola con cui la lingua francese dice la riduzione di libertà, ovvero contrainte. In realtà questa parola ha ulteriori plurimi significati, che è comunque interessante scorrere: “oppressione”, “inconveniente”, “pudore”. L’accezione che interessa adesso è però un’altra, quella a me più vicina e accessibile, in quanto anche e soprattutto letteraria. Con contrainte si intende infatti una regola, che limita una determinata forma di libertà. In ambito giuridico il senso è evidente, ma la contrainte esiste in moltissime altre discipline: dalla psicologia, alla biologia, alla matematica, all’ingegneria. In particolare, in letteratura, la contrainte è una tecnica volta a condizionare e vincolare scientemente la creazione artistica. Per esempio, negli anni Sessanta parigini, un gruppo di intellettuali chiamato OuLiPo (Ouvroir de littérature potentielle) sperimenta con risultati straordinari diverse forme di containte; una delle più famose è la contrainte du prisonnier, la cui regola impone di scrivere senza usare le lettere con le gambette (come la “p”, la “d”, la “b”). In breve, un modo per complicarsi la vita.
In realtà, è evidente che la contrainte è componente basilare della letteratura; basti pensare alla terzina dantesca, alla struttura del sonetto, alla forma del romanzo, e più in generale al linguaggio poetico (e a tutti gli effetti al linguaggio stesso – complesso di suoni e segni organizzati). Detto altrimenti: non c’è letteratura senza contrainte, così come senza contrainte non c’è linguaggio. Per porre fine a questa parentesi letteraria, questo è ciò che scrive Raymond Queneau (fondatore dell’OuLiPo), e che Italo Calvino (membro dell’OuLiPo) cita nelle Lezioni americane: “il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”. Ora, quello che si è appena detto è evidentemente applicabile ad ogni campo del sapere, e a ben pensarci anche a ogni forma dell’agire umano. È proprio la schiavitù dalle regole che si ignorano, a essere massimamente pericolosa, e subdola. Non è un caso che Queneau scriva queste parole mentre polemizza con la scrittura automatica dei Surrealisti. A un altro tipo di automatismo si era fatto riferimento poco sopra, e cioè a quello dettato dall’abitudine alle parole, ma sempre di una forma di assenza di volontà e di critica si tratta. Soprattutto di critica.
Un’altra cosa importante dice Queneau, ovvero che nell’osservazione di alcune regole, e nella coscienza e consapevolezza di esse, c’è maggiore libertà. Chiaramente non libertà assoluta (che implicherebbe l’assenza stessa del linguaggio), ma una libertà maggiore, rispetto a una condizione di presunta libertà dettata dal “non seguire regole”. Insomma, i limiti sono intrinseci alle cose, ed è meglio conoscerli e saperli rispettare, per poi poterci giocare e divertirsi nello sfidarli.
Per tornare alla cosiddetta attualità, in un video pubblicato su Youtube e a breve sottotitolato in italiano, Aurélien Barrau, astrofisico e professore all’Università di Grenoble, fa una riflessione sulla situazione odierna a mio avviso inedita e brillante. Nel quadro dell’emergenza sanitaria in atto, la popolazione ha generalmente accettato una fortissima riduzione di una imprescindibile libertà fondamentale, quella di potersi muovere, di spostarsi, restando, generalmente, barricata in casa. (Evidentemente, per questioni di spazio e coerenza, tralascio qui la complessità non troppo celata dietro a questi “ha generalmente accettato” e “restando generalmente barricata in casa”: e chi una casa non ce l’ha?). Secondo Barrau non solo la maggioranza della popolazione ha tollerato questo confinamento e tutte le limitazioni che ne conseguono, ma ha addirittura richiesto ai governi maggiori o migliori misure e risposte.
A questo punto lo studioso, che sta facendo un discorso di tipo ecologista (forse l’unico che ha davvero senso fare), si chiede come sia stato possibile concepire e accettare globalmente una limitazione di libertà di azione – e non solo – di tale portata, quando invece tutto l’insieme di contraintes, per l’appunto, a cui ci chiamano costantemente e inesorabilmente i problemi ambientali, e in particolare quelli climatici, viene per lo più ignorato. O, aggiungo io, formalmente “risolto” con piccoli gesti salvacoscienza, forse più dannosi che utili, in quanto consapevolmente superficiali. Questo confinamento è dovuto a un virus che è strettamente legato alle problematiche ambientali che derivano dall’insostenibilità del sistema-macchina in cui siamo tutti incastonati e dello stile di vita che ne consegue – a partire dai mai così citati allevamenti intensivi. Il virus è un problema, certo, ma è la conseguenza di un problema più grande e radicato, la cui entità è facilmente captabile semplicemente sfogliando qualche dato sul numero annuo dei morti a causa dell’inquinamento (dati su cui, guarda caso, cala un pesantissimo silenzio: qui la narrazione si censura). Quando si dice stile di vita si fa riferimento ad abitudini e automatismi condivisi, a una narrazione allo stesso tempo individuale e collettiva, così pervasiva e consolidata da essere invisibile. Un po’ come l’acqua della boccia di quei pesci che a un certo punto si chiedono: “ma cosa diavolo è l’acqua?”.
Siamo insomma, riprendendo Queneau, del tutto ignoranti dei limiti: sia di quelli metastrutturali (della narrazione, di cui nessuno ha più il controllo), sia di quelli strutturali (il rapporto dell’uomo con l’ambiente, che non è sostenibile), sia di quelli materiali (il pianeta terra, che non sentiamo). Ricordiamo che Queneau mette in relazione regola e libertà. Qui il binomio sembra piuttosto essere limite-sopravvivenza. Ma non va dimenticato che proprio nella contrainte sta lo stimolo creativo, per il poeta. Anche Barrau lo dice: l’ecologia non ha nulla di castrante, tutt’altro. Insomma, è vero che la questione è che non bisognerebbe cambiare il modo di fare spesa, nel senso di mettere prodotti altri nel carrello, ma che bisognerebbe farne meno, di spesa (e non solo al supermercato o su Amazon). E questo ormai lo dicono in molti, e di questi non lo fa quasi nessuno. Ma è possibile che sia davvero questo il grande limite che l’umanità ha difficoltà a riconoscere, concepire e rispettare? Con quanta arroganza accompagniamo la nostra (volontà di) ignoranza, il nostro lassismo, la nostra passività aggressiva, la nostra noia frenetica? Potrebbe essere il caso, insomma, di accogliere la sfida di una nuova narrazione condivisa, che sia allo stesso tempo collettiva e individuale. Di creare una contrainte, tanto necessaria quanto ricca di nuove possibilità (politiche, economiche, sociali, culturali), in accordo con le esigenze del pianeta alla cui esistenza compartecipiamo.
È un po’ triste (e poco glorioso), in ogni caso, aver aspettato l’arrivo di un virus che minaccia le nostre velleità di potenza, cioè le nostre capacità di controllo, per incominciare a pensare di poter trasformare in narrazione per lo più condivisa l’idea che è concepibile, se non altro, “lavorare con lentezza”. In quanto figlia del cosiddetto consumismo, radicato in me fino ai più intimi meandri, non so fino a che punto la mia generazione, che pure è quella dei “giovani” (rivoluzionari, per antonomasia e tradizione?), riuscirà/potrà responsabilizzarsi davvero. Soprattutto considerata la preoccupante passività venata da timore reverenziale per un’autorità mai problematizzata a fondo, con cui ci sto osservando reagire a questo confinamento (in Italia quanto in Francia). Non parlo, naturalmente, dello stare a casa per la sicurezza propria e altrui, quanto piuttosto della totale assenza di prospettive di intervento concreto, organizzato e compartecipato contro la teoria e la prassi del “produci-consuma-crepa”. Che sono la nostra norma e normalità (perché si, è questa la rassicurante “normalità” a cui si tornerà dopo la fine del confino), e contro le quali non abbiamo strumenti. Le regole, si è detto, è bene che ci siano per dare forme e contorni condivisi ai necessari limiti da riconoscere e rispettare, ma vanno sempre criticate, cioè trasformate in strumenti critici, per l’appunto.
Greta Gribaudo