Venezia: ero un ragazzo la prima volta che la vidi, gli occhi stupefatti davanti a una poesia d’acqua. Eravamo in gita scolastica e per le calli saliva inconsueto, per noi montanari, l’odore aspro della Laguna. Reticoli di piccole onde verdastre accarezzavano il legno lucido delle gondole, che scivolavano via, dirette da un lungo remo che scavava l’acqua.
Il gondoliere sembrava incollato all’imbarcazione, opera d’arte sul mare, e un nastro rosso fluttuava, come coda libera, sul suo cappello.
Anche la più bella della scuola portava un cappello, un basco di lana rosa di traverso sulla fronte.
Lei aveva gli occhi di un cerbiatto e i capelli come onde di mare ai lati del viso.
La gondola incrociava altre gondole tutte con la prua a forma di pettine. Perché fossero fatte così non me lo chiedevo. Non c’erano pensieri nel mio sguardo, solo stupore per la bellezza e incanto del luogo.
Oggi Venezia si inabissa. Le gondole si accartocciano nell’urto del vento che alza le onde, strapazza la Laguna; l’acqua dilaga tra i palazzi storici, lambisce e divora i colonnati di marmo, diminuisce l’altezza dei ponti. La furia della marea fa arretrare gli spazi della vita, battelli e imbarcazioni vengono risucchiati nelle calli, sfondano vetrine, invadono la hall degli alberghi.
Venezia cola a picco, oggi più di ieri, sopraffatta dall’alta marea che i politici arginano, da sempre, con la diga della parole. Ma le parole sono grovigli permeabili all’acqua, sono suoni e scritte sulle onde.
Venezia ha bisogno di altro, è una voce della natura che sa di morte, è l’allarme inascoltato di una bellezza in agonia. Non ci vogliono contromisure di cemento o sbarramenti di ferro, occorre il ripristino di un ambiente naturale. Venezia non si salva con il turismo, si salva con il pensiero che ama, si salva con il rispetto di quella sacralità ambientale che la cecità del mondo politico, e anche dei turisti, hanno violato.
Dopo gli anni della scuola sono tornato a Venezia una volta sola e poi più. Sul ponticello, da cui si ammira il Ponte dei Sospiri, la calca dei turisti era fragore da stadio, un’ammucchiata di macchine fotografiche, lo spettacolo di una presenza inconsapevole e profanatrice.
Solo un ricordo mi sorrideva, il riflesso di un basco rosa ondeggiante sul pelo dell’acqua.
Venezia, assaltata dai turisti, sembrava un sipario di velluto nero calato sui colori del paradiso.
Addio Venezia, addio dolce fruscio delle gondole, addio malinconia nebbiosa dei tuoi inverni, addio mare luccicante di luce estiva, dove si specchiano palazzi e meraviglie.
Nei giorni dell’oggi, in piazza S. Marco invasa dal mare, mai così alto stando alla storia, l’onnipresente Salvini arrancava, come un remo di gondola nell’acqua, le gambe intubate in un paio di stivali che orlavano gli inguini. Intorno a lui, sparuti giornalisti senza stivali, porgevano i microfoni per le domande di rito. Il capo leghista osservava, con accorta attenzione, che l’acqua non superasse il livello ultimo dei suoi stivali. I cronisti all’intorno, invece, erano già ampiamente inzuppati. La linea di demarcazione, in cui galleggiava la frontiera del mare, lambiva l’altezza dei genitali. Sembrava una metafora della vita. Salvini, a rappresentare i potenti sempre all’asciutto, i giornalisti nella parte dei lavoratori con i pantaloni zuppi già di colore più scuro. Dietro di loro lo spicchio dei turisti, esiguo per ragioni climatiche, ma irriducibile nella volontà di ritrarsi in un selfie con il cadavere Veneziano alle spalle.
Tutto intorno il mare fangoso di S. Marco che si mangia un gioiello del mondo.
Credo ce ne sia abbastanza per accorgersi, una volta di più, che per colpa dell’uomo, la vendetta della natura ha una sua sacrosanta giustificazione.
Di colpo la mia mente si sposta. Mi viene in mente il vecchio film di Fellini “La voce della luna”, quando la bionda Selene sbarca sul nostro pianeta e noi, uomini di pessima qualità, berciando litigiosamente, spariamo contro la magia della bellezza, riuscendo a sciupare anche l’eccezionalità di quell’evento. “Siamo un popolo di stronzi” diceva, in concomitanza, una voce fuori campo e quelle parole erano, già allora, una profezia di verità.
Pierangelo Scala