“Siamo un paese agli arresti domiciliari, senza pensare che chi vive in carcere”
Questo che stiamo vivendo è davvero un tempo sospeso, dove solo apparentemente “non succede nulla”. In realtà, quando riusciamo ad allontanarci dalle cifre del contagio e dall’ennesima release dell’autodichiarazione, scopriamo che tutto è in movimento come non mai, fuori di noi e dentro di noi. Scopriamo che l’antidoto alla paura di non riuscire ad arrivare a fine mese perché non stiamo lavorando è pensare che quelli costretti a farlo, in circostanze sempre più drammatiche (negli ospedali, nei supermercati, sui furgoni per le consegne) ci potrebbero vedere come privilegiati. Leggevo da qualche parte che siamo un paese agli arresti domiciliari, senza pensare che chi vive in carcere farebbe senza pensarci (virus compreso) cambio con la nostra condizione di “segregati”.
Chiunque abbia dimestichezza con questo “non luogo” si rende conto che non è, non può essere in grado di offrire i requisiti minimi per la sicurezza per i detenuti e per chi (agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, medici, fornitori) è comunque a contatto, in modo diretto o indiretto, con le strutture penitenziarie. E che la segregazione, in cella, non è affatto garanzia di immunità. Attualmente sarebbero 17, secondo i dati del DAP , il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) i detenuti risultati positivi al COvid-19 e oltre 200 quelli in quarantena. Un dato preoccupante, in un ambiente come il carcere dove le persone sono tenute forzatamente a stretto contatto. In questo momento nelle carceri italiane ci sono 61.230 detenuti, circa 14mila in più rispetto alla capienza regolamentare. In alcuni istituti il sovraffollamento delle celle supera del 190% la capienza regolare. Pensiamo alla nostra, di segregazione e facciamo due conti. Vuol dire condividere 12 metri quadri in quattro, non avere spazio per leggere seduti su uno sgabello, non avere privacy, mai. Nel 2013 l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti umani per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea a causa di un sovraffollamento delle carceri che rendeva degradanti le condizioni di vita interne. Oggi siamo al 2020 e questa immutata, se non peggiorata situazione significa anche paura del contagio. Le misure fino ad oggi adottate (sospensione dei colloqui, blocco dei permessi, interruzione del lavoro all’esterno e del regime di semilibertà) sono tanto punitive quanto insufficienti. Se qualcosa stiamo imparando in questi giorni è proprio che le vie del contagio sono molte.
L’Associazione Antigone (portatrice di battaglie per i diritti e le garanzie nel sistema penale) ha inviato giovedì 26 marzo ai parlamentari delle commissioni bilancio e giustizia e a tutti i capigruppo parlamentari una serie di proposte emendative degli articoli 123 e 124 del decreto Cura-Italia. Proposte che vogliono far accrescere la possibilità di avere provvedimenti di detenzione domiciliare, liberazione anticipata e affidamento al servizio sociale affinché le carceri possano tornare ad una situazione di legalità che consenta di affrontare al meglio il diffondersi dei casi di coronavirus. Persone di pericolosità ridotta la cui liberazione non creerebbe particolare allarme sociale (trattandosi, tra l’altro, solo di un rinvio dell’esecuzione), ridurrebbe le presenze in carcere al di sotto della capienza regolamentare e consentirebbe, in caso di necessità, misure precauzionali adeguate. L’Iran (che non pare brillare in quanto a rispetto dei diritti umani) il 3 marzo, ha disposto la conversione del carcere in arresti domiciliari per ben 54mila detenuti con pena inferiore a cinque anni. Da noi è davvero impensabile e impossibile? (un dato per tutti: l’attivazione dei braccialetti elettronici è bloccata da più di un anno grazie all’allora ministro Salvini).
E poi verrà il dopo, quando avremo chiare tante cose. Ad esempio che i muri non ci possono difendere mai, in nessuna delle due direzioni. O che dall’emergenza si possono trarre insegnamenti importanti. Ad esempio affrontare il “non luogo” carcere come un “luogo” e ripensare alle condizioni e alle dinamiche che continuano a stiparlo, senza che questo abbia ridotto insicurezza e paure di chi vive “fuori”. Allora sì, andrà tutto bene.
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